Politica dei visti e stato di diritto: il difficile equilibrio tra sovranità e garanzie procedurali nella giurisprudenza della Corte di giustizia

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Abstract: Third country nationals are in a “weak” position when it comes to issuing a uniform Schengen short-term visa. The EU acquis on visas, and most notably the Visa Code, is still a domain strongly marked by State sovereignty, wide margin of appreciation and scarce transparency in the decision-making process. The EU Court of Justice has tried to rebalance the situation of third country nationals who apply for a Schengen visa, by ensuring that essential guarantees are in place when such a visa is denied. Even if granting a visa entails a clear manifestation of sovereignty, the decision to refuse a visa application cannot evade basic principles of the Rule of law, such as the duty to state reasons and the right to an effective remedy. Following a contextualization of the EU visa policy, with an overview of the evolution and the main features of the visa regime, this Insight the case-law of the Court of Justice relating to the interpretation of the Visa Code, in light of the EU Charter of Fundamental Rights, and namely, its art. 47.

Keywords: Visa Code – right to an effective remedy – art. 47 Charter – duty to state reasons – rule of law – common policy on visas.
 

I. Introduzione

“La sua presenza rappresenta, secondo uno o più Stati membri, una minaccia per l’ordine pubblico, la sicurezza interna, la salute pubblica […] o per le relazioni internazionali di uno o più Stati membri”. Questo quanto si legge tra i motivi presenti nel modulo uniforme per la notifica del rifiuto di un visto per l’ingresso nell’area Schengen.[1] Può una frase così generica, su cui le autorità degli Stati membri si limitano ad apporre una “X” in corrispondenza di un’apposita casella, assolvere all’obbligo di motivazione degli atti? Quale è, nello specifico, la “minaccia” che viene in rilievo? E si tratta di una minaccia contro che cosa, segnatamente, nel “pacchetto” di diversi motivi indistintamente elencati? Ancora, chi esattamente, tra “uno o più Stati membri”, ha ritenuto sussistente la minaccia impedendo il rilascio del visto? Presso quali autorità, e come, è possibile presentare un ricorso?

Un rinvio pregiudiziale operato dal Tribunale dell’Aia ha offerto alla Corte di Giustizia l’opportunità di chiarire questi aspetti. Come meglio si dirà, con la sentenza Minister van Buitenlandse Zaken (di seguito R.N.N.S. e K.A.) del 24 novembre 2020, la Grande Sezione risponde che il carattere eccessivamente generico e succinto della motivazione indicata nel modulo uniforme in uso alle autorità consolari comprime il diritto a un ricorso effettivo e non soddisfa l’obbligo di motivazione degli atti.[2] Sugli Stati grava un obbligo di trasparenza che si traduce nella necessaria disclosure dei motivi specifici di rifiuto del visto, nonché delle informazioni relative alle procedure di ricorso.

La sentenza R.N.N.S. e K.A. è la più recente del filone giurisprudenziale interpretativo del Codice dei visti, in cui la Corte si è occupata, in particolare, delle scarse garanzie procedurali associate al diniego di un visto, quali l’obbligo di motivazione e il diritto a un ricorso effettivo. In un contesto come quello della politica dei visti, ancora caratterizzato da un’armonizzazione normativa parziale, e in cui il rilascio di un visto costituisce un potere sovrano dello Stato il cui esercizio si ricollega a un ampio margine discrezionale, il cittadino di paese terzo richiedente visto si trova in una posizione “debole”.[3] La Corte ha cercato di rimediare al deficit di tutela, riallineando le previsioni del Codice dei visti con il principio dello Stato di diritto e le garanzie collegate all’art. 47 della Carta. Ha dovuto, però, fare i conti con le prerogative sovrane e le preoccupazioni di sicurezza degli Stati, pervenendo a un bilanciamento delle posizioni delle parti non sempre soddisfacente.

Su tali premesse, il presente Insight, dopo aver contestualizzato la politica dei visti dell’Unione e aver tracciato i tratti essenziali della relativa disciplina, ripercorre il percorso giurisprudenziale finora compiuto dalla Corte di Giustizia nell’interpretazione delle garanzie procedurali in caso di diniego del visto.

II. La politica dei visti e la sua versatilità: da strumento di controllo remoto e preventivo a preziosa pedina di scambio

Come noto, il visto è un’autorizzazione a entrare nel territorio dello Stato, concessa su base individuale e in un momento precedente allo spostamento e all’arrivo alla frontiera da parte del soggetto interessato.[4] Nel diritto dell’Unione europea di per sé non esiste un diritto di ingresso nel territorio degli Stati membri a favore di un cittadino di paese terzo. Analogamente, non esiste un diritto soggettivo a ottenere un visto.[5] Il visto, piuttosto, rappresenta un obbligo, un prerequisito essenziale per chi, rientrando in apposite categorie di soggetti disciplinate dal diritto dell’Unione, intenda fare ingresso nel territorio degli Stati membri.[6]

In questo senso, gli Stati membri hanno accettato di inscrivere l’atto del rilascio del visto, espressione della loro sovranità, entro regole comuni e meccanismi di cooperazione, intergovernativa prima, comunitaria poi.[7] Sviluppatasi originariamente nell’ambito dell’esperienza Schengen, la gestione dei visti assurge oggi a “politica comune” dell’Unione europea,[8] riguardando, allo stato, i visti di breve durata.[9] L’odierno regime dei visti si configura come multiforme strumento di politica estera e di sicurezza, declinabile in base a diverse esigenze: finalità di natura economica, legate a business e turismo, strategie di controllo migratorio, sicurezza interna e ordine pubblico.[10]

Stando alle statistiche, nel 2019 sono stati rilasciati 15 milioni di visti uniformi per ingresso nell’area Schengen (a fronte di circa 17 milioni di richieste): il numero più alto mai registrato, nonostante la comparsa del virus Covid-19 negli ultimi mesi dell’anno.[11] Questi numeri testimoniano l’importanza del sistema dei visti quale meccanismo integrato di controllo della mobilità internazionale in entrata.

Stante il potere di attrattiva esercitato sui paesi terzi dalla prospettiva di una mobilità agevolata o preferenziale verso l’Europa, la normativa sui visti assume un chiaro rilievo politico. Essa funge così da importante leva negoziale nelle relazioni internazionali, soprattutto al fine di incentivare la cooperazione di determinati paesi terzi nella gestione degli interessi dell’Unione in materia di migrazione.[12] Ciò è vero, in particolare, per la riammissione dei migranti irregolari: nel toolbox degli strumenti a disposizione dell’Ue, i visti giocano tradizionalmente un ruolo importante, venendo impiegati in un’ottica di condizionalità per facilitare la collaborazione dei paesi terzi.[13]

Non essendo possibile soffermarsi sul tema in questa sede, basti osservare che la politica dei visti quale incentivo funzionale alla cooperazione nelle riammissioni abbia di recente ricevuto un deciso impulso da parte dell’Unione. Sebbene l’uso dei visti per tali finalità non sia di certo inedito, essendo stato anzi più volte richiamato dalla Commissione nel corso degli anni,[14] il collegamento tra visti e riammissioni ha ora ottenuto esplicito e positivo riconoscimento con la riforma del Codice dei visti del 2019, nonché ulteriore conferma nel Nuovo Patto sulla Migrazione e l’Asilo del 2020.[15] Il primo, in particolare, ha formalizzato, per la prima volta sul piano normativo, il link tra condizioni di rilascio dei visti e tasso di riammissioni, delineando un sistema di condizionalità positiva e negativa, basato su misure sanzionatorie ovvero premiali in funzione del livello di cooperazione di un dato paese terzo (c.d approccio della carota e del bastone).[16] Il secondo ha confermato, sul piano politico-programmatico, l’intenzione di puntare sul visto quale – se così lo si può definire – facilitatore della cooperazione,[17] così ribadendone la centralità nella partita per un effettivo sistema di rimpatri e riammissioni, priorità chiave dell’agenda politica europea nell’ambito della migrazione.[18]

Sembrano, invece, nettamente esulare dall’architettura complessiva delle politiche europee sui visti preoccupazioni legate alla protezione internazionale, nonostante l’acceso dibattito intorno ai c.d. visti umanitari, sviluppatosi specialmente con riguardo a richiedenti asilo in fuga dal conflitto in Siria. Le speranze di quanti intravedevano nella disciplina sui visti la possibile configurazione di una via di accesso legale alla protezione nell’Ue sono state disattese, prima dai giudici di Lussemburgo,[19] quindi anche da quelli di Strasburgo.[20] Analogamente, sul piano legislativo, e a conferma della volontà degli Stati membri di mantenere la politica dei visti quale “cordone di sicurezza” dell’area Schengen, vari tentativi di riforma promossi dal Parlamento europeo per l’inclusione nella disciplina sui visti di norme con specifica finalità di protezione internazionale sono state stroncate sul nascere.[21]

III. La disciplina dei visti: inquadramento, ratio e caratteristiche essenziali

L’acquis in materia di visti delinea un complesso tessuto normativo, frutto degli sviluppi susseguitisi negli ultimi decenni.[22] Tra le sue principali componenti rientrano regolamenti recanti norme circa: le procedure e le condizioni di rilascio dei visti di breve durata (Codice dei visti); la lista comune di paesi terzi i cui cittadini necessitano o meno di un visto per l’ingresso nell’area Schengen (c.d. black list e white list);[23] il sistema informatico di conservazione, scambio e utilizzo di dati relativi alle domande di visto (sistema di informazione visti – VIS).[24] La disciplina di diritto secondario è affiancata da una serie di strumenti ulteriori, quali manuali recanti istruzioni operative e linee guida adottate dalla Commissione d’intesa con gli Stati membri.

Il Codice dei visti, in particolare, disciplina procedure e condizioni per il rilascio del c.d. visto Schengen, il visto uniforme per transito o per soggiorni di breve durata (non più di tre mesi su un periodo di sei mesi) nel territorio degli Stati membri.[25] Adottato nel 2009, si pone l’obiettivo primario di configurare un sistema comune di gestione delle domande di visto, uniformandone condizioni di ricevibilità, documentazione, tempistiche, importo dei diritti di visto e così via.[26] Tale opera di armonizzazione ha di fatto consentito di creare uno “scudo” preventivo all’area Schengen, istituendo, quale contropartita per l’abolizione dei controlli alle frontiere interne, un sistema per filtrare gli spostamenti in entrata e valutare in anticipo i rischi esterni legati alla sicurezza e all’immigrazione clandestina.[27]

A una tale ratio difensiva della normativa sui visti, si aggiunge l’ulteriore obiettivo di evitare il fenomeno del “visa shopping”: mantenere condizioni e procedure uniformi per impedire che l’adozione di una politica sui visti di breve durata più generosa e favorevole da parte di uno Stato membro possa potenzialmente condurre, in mancanza di controlli alle frontiere interne, a effetti destabilizzanti per l’area Schengen[28].

Ancora, nelle intenzioni del legislatore dell’Unione, un’applicazione armonizzata della normativa in materia di visti sarebbe funzionale a garantire la parità di trattamento fra i richiedenti visto.[29] Come è stato criticamente osservato in dottrina, in realtà, il regime dei visti è ben lontano dal garantire l’equo trattamento dei richiedenti visto, essendo, anzi, intrinsecamente discriminatorio nella differenziazione dei cittadini di paesi terzi.[30] La riforma del Codice dei visti del 2019 ha contribuito ad accentuare i profili di diseguaglianza. Oltre all’elemento della nazionalità, funzionale all’inclusione o all’esclusione di determinati paesi nella “black list”, assumono rilievo, quali fattori di discriminazione, la condizione economica, sociale ed educativa del richiedente visto, così determinando differenze anche all’interno della categoria di cittadini di uno stesso Stato che sia incluso nella “black list”. Le ripercussioni si producono con riguardo alle condizioni, alle procedure e ai costi (aumentati) per il rilascio di un visto.[31]

In definitiva, connotata da inevitabili e marcati caratteri di sovranità, nonché da prevalenti finalità di controllo preventivo, la disciplina sui visti restituisce un’immagine del richiedente visto quale soggetto in una posizione sostanzialmente debole.[32] Questa situazione di svantaggio “in partenza” si inserisce nel contesto di un quadro normativo-procedurale problematico, poiché caratterizzato da un’armonizzazione ancora parziale, ampia discrezionalità e scarsa trasparenza nel processo decisionale sulla domanda di visto. In proposito, si è osservato come la disciplina dei visti configuri “un buco nero nella rule of law”.[33] A una tale situazione la Corte di Giustizia ha tentato di porre rimedio con la propria giurisprudenza, cercando, quanto meno, di ripristinare alcune delle garanzie essenziali dello Stato di diritto.

IV. La giurisprudenza sui visti: quadro complessivo

La disciplina dell’Unione in materia di visti di breve durata appare sbilanciata a favore dello Stato: il cittadino di paese terzo non vanta un diritto soggettivo di ingresso nel territorio degli Stati membri, né, di conseguenza, un diritto a ottenere un visto, quale autorizzazione all’ingresso. La decisione circa l’accesso al territorio rimane espressione della sovranità statale, il cui esercizio tuttavia risulta condizionato dal rispetto di una serie di garanzie procedurali previste dal diritto dell’Unione a favore del cittadino di paese terzo. Si tratta, in particolare, dell’obbligo di motivazione della decisione di diniego del visto e del diritto a presentare un ricorso, sanciti dall’art. 32 del Codice dei visti.[34] Come si chiarirà meglio nei paragrafi che seguono, la Corte di Giustizia è intervenuta nell’interpretazione di queste garanzie procedurali, contribuendo a chiarirne portata e implicazioni. Peraltro, se complessivamente considerata, la giurisprudenza della Corte in materia di visti rivela alcuni caratteri distintivi, sebbene la casistica rilevante risulti ancora numericamente modesta e relativamente “giovane”, in quanto sviluppatasi nell’arco di circa un decennio dall’adozione del regolamento istitutivo del Codice dei visti nel 2009.[35]

Si tratta, innanzitutto, di giurisprudenza alimentata da rinvii pregiudiziali, provenienti soprattutto da giurisdizioni tedesche e olandesi. Si può poi registrare il coinvolgimento della formazione giudicante della Grande Sezione della Corte in circa la metà dei casi, a indicazione dell’importanza e della complessità dei temi trattati.[36] Ancora, a conferma del carattere altamente sensibile, non solo da un punto di vista giuridico, ma anche politico, la casistica sui visti rivela sempre l’intervento in causa da parte di diversi governi. Il “record”, per così dire, spetta alla controversia sui visti umanitari – caso X e X c Belgio[37] – che ha visto la partecipazione di ben 14 Stati membri: un “termometro” politico della causa e un evidente segnale della compatta volontà dei governi di opporsi a qualsivoglia obbligo di rilasciare un visto umanitario.

Da un’analisi degli interventi in causa, peraltro, è possibile riscontrare un certo attivismo da parte di alcuni specifici governi. Si può notare, in particolare, un’attenta e frequente partecipazione degli Stati del c.d. Gruppo di Visegrad (Polonia e Repubblica Ceca su tutti), così come di quegli Stati i cui servizi consolari, statisticamente, ricevono il maggior numero di richieste di visto (Francia e Germania, ma anche Italia).[38] Oltre agli Stati membri, la casistica sui visti fa altresì registrare la partecipazione delle istituzioni europee, su tutte la Commissione, e, nel caso Vethanayagam, relativo al rilascio di un visto nel quadro degli accordi di rappresentanza consolare, anche Parlamento e Consiglio.[39]

Infine, a livello di norme interpretate, a parte un paio di casi di revoca e annullamento di un visto già concesso,[40] i rinvii pregiudiziali giunti alla Corte e relativi a visti di breve durata si concentrano principalmente sull’art. 32 del Codice dei visti, vale a dire, la norma chiave sulle condizioni e sulle modalità di diniego della domanda di visto e della disponibilità di mezzi di ricorso.[41] Si tratta, in effetti, come subito si dirà, dei profili maggiormente problematici della disciplina.

IV.1. Obbligo e carattere della motivazione

Il sistema dei visti concepito come “scudo esterno” allo spazio Schengen fa sì che, qualora sussista uno dei motivi di diniego previsti dal Codice dei visti, la domanda di visto debba essere respinta.[42] Si tratta di un obbligo: gli Stati devono negare il visto quando il richiedente non soddisfa le condizioni richieste.[43] Un tale automatismo opera, però, con riguardo ai soli motivi elencati nel Codice dei visti: gli Stati non dispongono di una carte blanche nel rifiutare un visto uniforme. La Corte di Giustizia lo ha chiarito nel 2013 nel caso Koushkaki, relativo a un visto Schengen negato a un cittadino iraniano dall’ambasciata tedesca a Teheran.[44]

Chiamata a pronunciarsi per la prima volta sulla portata dei motivi di rifiuto di un visto di cui all’art. 32 del Codice dei visti, la Corte precisa che tale norma contiene un elenco tassativo: a fronte dell’armonizzazione delle condizioni di rilascio di un visto uniforme, non vi possono essere divergenze nella determinazione dei motivi di rifiuto.[45] Se così non fosse, si comprometterebbero la tenuta e l’equilibrio del sistema, con rischio di visa shopping e “attrazione” delle richieste di visto verso gli Stati con motivi di diniego meno stringenti.

In dottrina è stata proposta una lettura “rovesciata” della sentenza Koushkaki: poiché le autorità nazionali non possono negare il visto se non sulla base dei motivi tipizzati e tassativamente inclusi nel Codice, ne seguirebbe che, se nessuno di tali motivi sussiste, il visto andrebbe sempre rilasciato. Si avrebbe, in questo modo, un diritto a ottenere il visto, laddove tutte le condizioni previste dal Codice risultino soddisfatte.[46]

La Corte non menziona un diritto a un visto e, anzi, si premura di sottolineare che le autorità nazionali dispongono di un ampio margine discrezionale per stabilire se al richiedente visto si applichi uno dei previsti motivi di diniego. In altri termini, se il perimetro dei motivi per rifiutare un visto è ben recintato entro un elenco tassativo, all’interno dello stesso gli Stati rimangono però liberi di muoversi con una certa agilità. Le autorità nazionali, infatti, godono di ampia discrezionalità nella valutazione dei fatti pertinenti volta a determinare la sussistenza di uno dei motivi ostativi al rilascio del visto.

Proseguendo in un esercizio di equilibrio tra sovranità statale e garanzie del cittadino di paese terzo, la Corte aggiunge che la libertà decisionale delle autorità nazionali risulta altresì condizionata in termini di modus procedendi: ogni domanda di visto esige un esame individuale, il quale “implica valutazioni complesse”,[47] e, per essere correttamente espletato, deve essere “molto minuzioso”.[48]

Il livello di dettaglio nell’esame dipenderà dal motivo di diniego di volta in volta rilevante. I motivi di diniego elencati all’art. 32 del Codice dei visti possono essere suddivisi in due categorie: formali (es. documenti falsi, soggiorno di tre mesi già effettuato nell’arco di sei mesi, segnalazione nel sistema d’informazione Schengen) e di merito (es. scopo e condizioni del soggiorno, mezzi di sussistenza sufficienti, rischio di immigrazione illegale, minaccia per l’ordine pubblico). Se i primi, tendenzialmente, non recano particolari questioni quanto alla verifica della loro concreta sussistenza, i secondi, invece, comportano apprezzamenti più articolati, potenzialmente forieri di scelte arbitrarie da parte delle autorità nazionali. Questi, infatti, includono sia profili soggettivi relativi alla situazione specifica del richiedente (compresa la sua “personalità”: criterio peculiare, non espressamente previsto dal Codice visti),[49] che oggettivi, con riguardo alla situazione generale del suo paese di origine.

In Koushkaki, in particolare, il visto era stato negato per il motivo del rischio di immigrazione illegale, vale a dire, la possibilità che il soggetto, una volta ottenuto il visto, si trattenesse nel territorio degli Stati membri oltre la scadenza dello stesso, divenendo overstayer. Anche in questo caso le autorità nazionali sono tenute a condurre un esame attento e individuale, tuttavia potranno legittimamente rifiutare il visto sulla base di ragionevoli dubbi circa le intenzioni del richiedente, non essendo necessario raggiungere un livello di certezza.[50] Ancora una volta, l’equilibrio delle posizioni è ristabilito.

I principi ora descritti sono stati in parte ripresi nella sentenza Fahimian del 2017, ancora con riguardo al diniego di un visto da parte dell’ambasciata tedesca a Teheran, questa volta per motivi sicurezza pubblica.[51] Il caso coinvolgeva una studentessa iraniana che, completati gli studi universitari nel proprio paese d’origine, intendeva recarsi in Germania beneficiando di una borsa di studio per un dottorato di ricerca nel settore delle tecnologie informatiche e di sicurezza. La sua domanda di visto per motivi di studio veniva rifiutata in base al timore che le conoscenze acquisite durante il dottorato potessero poi essere impiegate per fini illegittimi e attività pregiudizievoli per la pubblica sicurezza.

Adita in via pregiudiziale, la Grande Sezione ribadisce che il diniego di un visto deve poggiare su “una motivazione adeguata e una base di fatto sufficientemente solida”, le quali devono giungere all’esito di un esame rigoroso delle rilevanti circostanze del caso.[52] A livello di norme interpretate, sebbene in Fahimian il rinvio pregiudiziale non fosse diretto all’interpretazione del Codice dei visti – bensì della direttiva 2004/114/CE sull’ammissione di cittadini di paesi terzi per motivi di studio –, la Corte si ricollega alla sentenza Koushkaki, riprendendone i principi di fondo.[53] Sottolinea, però, che le autorità nazionali dispongono di un ampio margine discrezionale per valutare l’esistenza di una minaccia – anche solo potenziale – per la sicurezza pubblica. Non solo: stante l’ampiezza del potere discrezionale delle autorità, il sindacato sulla decisione di diniego del visto sarà limitato all’assenza di errore manifesto.[54]

IV.2. Diritto a un ricorso (giurisdizionale) effettivo

L’art. 32(3) del Codice dei visti stabilisce il diritto di ricorso contro il diniego del visto. Si tratta di un tema che è stato oggetto di dibattito. In sede di negoziati per l’adozione del Codice dei visti fu uno dei punti più spinosi, situandosi tra atteggiamenti frenanti e di chiusura dei governi, preoccupati dal rischio di una “pioggia” di riscorsi con conseguente sovraccarico degli organi nazionali, e spinte garantiste del Parlamento europeo, che considerava il diritto a un ricorso una garanzia irrinunciabile.[55]

Il Codice sancisce ora in generale il diritto a ricorrere contro il diniego di un visto, ma rimette alla legislazione domestica di ciascuno Stato membro la determinazione concreta delle modalità e delle tipologie dei mezzi di ricorso. Come conseguenza, le vie di ricorso variano considerevolmente tra i vari ordinamenti, in un puzzle disomogeneo in termini di tipologie (ricorso amministrativo, giurisdizionale, misto), procedure, scadenze, costi e tempistiche. Una tale mancanza di uniformità produce un impatto sui diritti dei cittadini di paesi terzi, come sottolineato più volte dall’Agenzia dei diritti fondamentali dell’Ue nei primi anni di applicazione del Codice dei visti.[56] La stessa Commissione europea, alcuni anni dopo l’entrata in vigore del Codice nel 2009, avviò procedure di infrazione nei confronti di quegli Stati membri che non avevano predisposto un sistema effettivo di ricorsi, in violazione dell’art. 47 della Carta.[57]

Sancito espressamente nel Codice dei visti, il diritto a un ricorso in materia di visti ha sollevato una serie di problemi interpretativi a causa della sua non chiara formulazione: anzitutto, in merito alle sue caratteristiche, poiché l’art. 32(3) si riferisce a un generico diritto di “presentare un ricorso”, senza altro specificare. Sul punto è intervenuta la Corte con la sentenza nel caso El Hassani del 2017, relativo alla richiesta di un visto Schengen avanzata dal ricorrente presso il consolato polacco a Rabat al fine di far visita ai familiari residenti in Polonia.[58] Il visto veniva rifiutato a causa del rischio di immigrazione illegale. Il ricorrente esigeva che la decisione venisse sottoposta a controllo giurisdizionale, ma il diritto polacco escludeva tale forma di sindacato in riferimento alle decisioni sui visti da parte delle autorità consolari. Per questo motivo, all’epoca dei fatti, la Commissione europea aveva introdotto procedure di infrazione contro la Polonia e altri Stati.[59]

Richiesta di interpretare l’art. 32(3) del Codice dei visti alla luce dell’art. 47 della Carta, la Corte non nega l’autonomia degli Stati membri nella configurazione dei propri sistemi di ricorso. Tuttavia, la circoscrive, stabilendo l’obbligo di offrire, a un dato stadio del procedimento, un ricorso di natura giurisdizionale. Anche l’Avvocato Generale (AG) Bobek aveva sostenuto la sussistenza del “diritto di accesso a un giudice in materia di visti”, chiarendo che, sebbene il richiedente non abbia un diritto soggettivo al rilascio del visto, egli sia comunque titolare di un diritto di natura procedurale a che la propria domanda venga trattata in modo imparziale.[60]

Un tale diritto a un ricorso di natura giurisdizionale è stato da ultimo ribadito con la sentenza M.A. del 10 marzo 2021, in cui la Corte si è pronunciata in tema di diniego di visto nei confronti di uno studente, ancora una volta da parte delle autorità consolari della Polonia. [61] Adita con un rinvio pregiudiziale operato dalla Corte amministrativa suprema polacca, la Corte di Giustizia è stata interrogata circa la necessità di prevedere un ricorso giurisdizionale anche contro il diniego di un visto di lunga durata, richiesto per motivi di studio o ricerca. La risposta è affermativa e si pone così in linea con la sentenza El Hassani: se, in quell’occasione, la Corte aveva chiarito che il diritto dell’Unione esige che il diniego di un visto uniforme Schengen di breve durata debba essere sottoposto, a un dato stadio del procedimento nazionale, al sindacato di tipo giurisdizionale, in M.A. la stessa conclusione è raggiunta anche con riguardo al diniego di un visto per soggiorni di lunga durata, come tale rilasciabile conformemente al diritto nazionale. In questo senso rileva, non, evidentemente, il Codice dei visti, relativo ai visti di breve durata, bensì la direttiva (UE) 2016/801 sulle condizioni di ingresso e soggiorno dei cittadini di paesi terzi per motivi di ricerca e studio, la quale consente agli Stati membri di rilasciare visti di lunga durata in favore di ricercatori e studenti stranieri.[62] Detta direttiva, letta alla luce dell’art. 47 della Carta, esige che le decisioni di diniego di un visto di lunga durata per motivi di studio o ricerca siano impugnabili nello Stato membro interessato, conformemente al diritto nazionale, ferma la garanzia per cui, a un dato stadio del procedimento, vi sia accesso a una forma di controllo da parte di un giudice.

IV.3. Diritto a un ricorso effettivo avverso il diniego di visto emesso nel contesto di una collaborazione tra più Stati

Dopo aver chiarito in El Hassani che il ricorso avverso il diniego di un visto da parte di uno Stato membro deve avere natura giurisdizionale, la Corte ha dovuto affrontare l’ulteriore e problematico tema della competenza a trattare il ricorso laddove il visto sia negato nel contesto di una procedura decisionale che coinvolga la cooperazione tra più Stati membri. Al riguardo, in particolare, due sono le fattispecie rilevanti affrontate dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia. Da un lato si tratta del caso di rifiuto di un visto Schengen emesso nell’ambito di un accordo di rappresentanza di cui all’art. 8 del Codice dei visti, su cui la Corte si è pronunciata con la sentenza Vethanayagam del 2019. Dall’atro, rileva la circostanza in cui il visto sia negato dopo l’espletamento della procedura di consultazione preventiva di cui all’art. 22 del medesimo Codice, caso di cui la Grande Sezione si è occupata nel 2020 con la sentenza R.N.N.S. e K.A.

a) Diritto a un ricorso nel contesto di un accordo di rappresentanza.

Con la sentenza nel caso Vethanayagam, la Corte ha affrontato il tema del diritto a un ricorso effettivo esperibile nei confronti del diniego di un visto nel contesto di un accordo di rappresentanza concluso ex art. 8 del Codice dei visti.[63] Tale norma prevede un sistema di cooperazione imperniato su specifici accordi bilaterali, cui far ricorso quando uno Stato membro non abbia un proprio consolato in un dato paese terzo: in questo scenario, detto Stato (rappresentato) si appoggerà a un altro Stato (rappresentante), il quale disponga invece di autorità consolari nel paese terzo in questione. L’accordo di rappresentanza delinea termini e modalità della collaborazione interstatale, potendo configurare una forma di rappresentanza più lieve, limitata alle operazioni di raccolta delle domande di visto, rilevamento e trasmissione dei dati biometrici, ovvero una forma più intensa, in cui lo Stato rappresentante è abilitato a esaminare e decidere le domande di visto per conto dello Stato rappresentato.[64] Sulla base di questo quadro normativo, il caso Vethanayagam vedeva coinvolti due cittadini dello Sri Lanka bisognosi di un visto per visitare dei parenti nei Paesi Bassi. Data l’assenza di servizi consolari olandesi nel paese terzo in questione, i ricorrenti si rivolgevano al consolato della Svizzera, il quale, sulla base di apposito accordo di rappresentanza svizzero-olandese, trattava e respingeva le domande di visto. Sorgeva quindi la questione del diritto a un ricorso, segnatamente, sotto il profilo del foro competente per la sua trattazione.

La questione, in generale, riveste un rilievo pratico di non poco conto, determinando un impatto evidente sull’effettività del diritto a un ricorso. Come si è detto, gli Stati conservano autonomia processuale nell’organizzare i sistemi domestici di ricorso, pertanto il ricorrente, a seconda dello Stato competente, si troverà a fare i conti con una diversità di fattori: procedure (e relative garanzie, quali, per esempio, il diritto a essere ascoltato e a utilizzare una data lingua), entità dei contributi di cancelleria, spostamenti e viaggi, reperibilità di informazioni e via dicendo.

Alla luce di tali considerazioni, l’AG Sharpston aveva sostenuto che la competenza a gestire i ricorsi avverso il diniego di visto fosse da attribuirsi allo Stato membro rappresentato.[65] Questo costituisce il “foro naturale” a cui associare il diritto a un ricorso effettivo, in quanto destinazione del viaggio e sede unica, o principale, del soggiorno per cui si richiede il visto.[66] È vero, si osserva, che la decisione di diniego è adottata dallo Stato rappresentante, ma questo agisce per conto dello Stato rappresentato e dietro sua precisa autorizzazione.[67]

La Corte non segue questa impostazione e stabilisce che la responsabilità della decisione finale sulla domanda di visto (e quindi anche della trattazione dell’eventuale ricorso) spetta allo Stato rappresentante, sempre che l’accordo bilaterale in essere conferisca tali capacità decisorie. Per chiarire: in Vethanayagam l’accordo tra Svizzera e Paesi Bassi prevedeva la versione più intensa di rappresentanza, per cui le autorità svizzere risultavano abilitate a trattare e decidere le richieste di visto per i Paesi Bassi. In questo caso il foro del ricorso viene attratto nello Stato le cui autorità hanno negato il visto. Ciò, puntualizza la Corte, è pienamente compatibile con il diritto a una tutela giurisdizionale effettiva.[68]

La sentenza Vethanayagam è stata criticata in quanto determinante un impatto negativo sul diritto a un ricorso effettivo. In particolare, gli sforzi e gli ostacoli pratici derivanti dalla necessità di agire presso le autorità di Stato diverso da quello di destinazione del viaggio, sarebbero idonei a determinare de facto una compressione del diritto a un ricorso effettivo.[69] La Corte, tuttavia, ha mantenuto un approccio simile in occasione della successiva sentenza R.N.N.S. e K.A, resa in esito a un rinvio pregiudiziale proveniente ancora una volta dai Paesi Bassi, e relativo al tema del foro di competenza per il ricorso avverso la decisione di diniego di un visto pronunciata in seguito alla procedura di consultazione preventiva prevista dal Codice dei visti.

b) Obbligo di motivazione e diritto di ricorso nel contesto di una procedura di consultazione.

Il percorso giurisprudenziale fin qui descritto si completa con la sentenza della Grande Sezione del 24 novembre 2020 nel caso R.N.N.S. e K.A.[70] La vicenda attiene al diniego di un visto Schengen nell’ambito della procedura di consultazione di cui all’art. 22 del Codice dei visti. Questa norma prevede che lo Stato membro destinatario di una domanda di visto da parte di un soggetto potenzialmente associabile a una minaccia per l’ordine pubblico possa attivare un meccanismo di consultazione preventiva delle competenti autorità degli altri Stati: queste hanno a disposizione sette giorni per rispondere e, se del caso, opporsi al rilascio del visto. La mancata risposta entro il termine equivale a silenzio-assenso.[71]

Nel caso di specie, un cittadino egiziano e una cittadina siriana introducevano domande di visto Schengen per recarsi nei Paesi Bassi in visita ai rispettivi parenti. Il visto veniva negato dalle autorità olandesi in quanto, nell’ambito della procedura di consultazione preventiva, vi era stata obiezione, da parte dell’Ungheria nel primo caso, della Germania nel secondo. I ricorrenti lamentavano un vulnus al diritto a un ricorso effettivo a fronte del diniego notificatogli con l’apposito modulo uniforme previsto dal Codice dei visti, la cui formulazione generica e standardizzata impediva di conoscere la reale motivazione del rifiuto, nonché i mezzi di ricorso esperibili. Più nel dettaglio, il modulo reca una serie di caselle, corrispondenti a diversi motivi di diniego. La sesta casella attiene al motivo della minaccia, includendone indistintamente “a pacchetto” tutte le tipologie (ordine pubblico, sicurezza interna, salute pubblica, relazioni internazionali). Inoltre, non prevede la possibilità di identificare lo Stato che abbia formulato obiezione nell’ambito della procedura di consultazione preventiva.

Secondo la Corte, questa configurazione del modulo uniforme contrasta con il diritto a un ricorso effettivo, in quanto non consente al richiedente visto di conoscere i dettagli della decisione di diniego, impedendogli di poterla efficacemente contestare. Il problema è risolto dalla Corte in modo pragmatico: si fa obbligo agli Stati di precisare, utilizzando l’apposita rubrica del modulo uniforme intitolata “Osservazioni”, i seguenti elementi: i) l’identità dello Stato membro che si è opposto al rilascio del visto; ii) il motivo specifico alla base del rifiuto, corredato, se del caso, del suo contenuto essenziale; iii) l’autorità alla quale rivolgersi per conoscere i mezzi di ricorso esperibili nello Stato che ha espresso l’obiezione al rilascio del visto. In questo senso la pronuncia va letta anche alla luce della riforma del Codice dei visti del 2019 che ha introdotto un nuovo modulo uniforme che separa i motivi di rifiuto in apposite caselle distinte.[72]

Il caso R.N.N.S. e K.A. poneva l’ulteriore questione della competenza alla trattazione di un ricorso in caso di diniego del visto in esito alla procedura di consultazione preventiva. Sul punto la Corte opera una distinzione, delineando un duplice canale di controllo giurisdizionale: da un lato, sulla decisione di diniego del visto, dall’altro, sull’obiezione relativa alla sussistenza di una minaccia per l’ordine pubblico. Il sindacato su tali aspetti sarà esercitato da diverse autorità e secondo profili diversi. Pertanto, spetta ai giudici dello Stato membro che ha rifiutato il visto (nella specie: i Paesi Bassi) esaminare la legittimità della decisione di diniego. Il rifiuto del visto dovrà essere vagliato assicurandosi che la procedura di consultazione preventiva sia stata esperita correttamente e che le varie garanzie procedurali siano state pienamente rispettate. Questi stessi giudici, viceversa, non possono occuparsi della legalità sostanziale dell’obiezione al rilascio del visto formulata da un altro Stato membro (nella specie: Ungheria in un caso, Germania nell’altro). Del controllo sulla fondatezza dell’obiezione della minaccia per l’ordine pubblico si devono occupare i giudici nazionali dello Stato “obiettore”: da qui l’obbligo per lo Stato che nega il visto di indicare le autorità a cui rivolgersi per conoscere i mezzi di ricorso disponibili nello Stato autore dell’obiezione.

La Corte, quindi, scinde i percorsi di ricorso, introducendo di fatto una nuova via di ricorso da esperirsi contro lo Stato obiettore per contestare l’esistenza di una minaccia. Questa conclusione, formalmente, appare coerente e rispettosa delle competenze degli Stati membri. Qui non si è, in effetti, in presenza di un criterio verificabile, tendenzialmente, in base ad elementi oggettivi, come ad esempio dei documenti falsi. Si è di fronte, invece, a un motivo dal carattere delicato, il cui accertamento richiede valutazioni complesse che poggiano – in mancanza di una nozione oggettiva e comune di “ordine pubblico europeo”[73] – sulle valutazioni e sulle concezioni particolari dei singoli Stati membri. Pertanto, sembrerebbe quanto meno insidioso (se non impossibile) per una giurisdizione nazionale dello Stato A pronunciarsi sull’ordine pubblico di uno Stato B, sindacandone le valutazioni svolte dalle rispettive autorità nazionali. In questo senso la soluzione prospettata appare altresì rispettosa del principio di cooperazione e di mutuo riconoscimento.[74]

D’altro canto, e guardando ai risvolti pratici, un tale sdoppiamento delle vie di ricorso, complica non poco la vita del richiedente visto: egli si troverà a dover interagire con le autorità di uno Stato membro con il quale, tendenzialmente, non ha alcun legame. Di tale Stato “obiettore”, poi, egli potrebbe ben ignorare la lingua, il sistema giuridico, le procedure. L’imposizione di tali sforzi aggiuntivi mal si concilia con la garanzia di una tutela giurisdizionale effettiva.[75] Per questo motivo, nel difficile tentativo di mantenimento dell’equilibrio tra le posizioni, la Corte tempera gli oneri del cittadino di paese terzo imponendo allo Stato che rifiuta il visto l’obbligo di comunicare l’identità dello Stato che ha fatto obiezione e le autorità cui rivolgersi per conoscere le vie di ricorso ivi esperibili. La soluzione delineata, tuttavia, non chiarisce come, in concreto, si articolerebbe il sistema di ricorsi qualora vi fossero più Stati “obiettori” che considerano il soggetto una minaccia (e magari sulla base, potenzialmente, di motivi diversi).

Un ultimo chiarimento. La Corte, a chiusura della sentenza, afferma che, in ogni caso, anche a fronte di una o più obiezioni sollevate nel contesto della consultazione preventiva, lo Stato membro rimane libero di rilasciare un visto con validità territoriale limitata ex art. 25 del Codice dei visti.[76] L’obiezione di un altro Stato membro, pertanto, non equivale a un veto assoluto, tale da impedire necessariamente l’ingresso del cittadino di paese terzo. Lo Stato membro che tratta la domanda di visto potrà, eccezionalmente, rilasciare un particolare visto valido per il solo territorio nazionale, assumendosi, evidentemente, i rischi legati all’ordine pubblico che erano stati evidenziati dalle autorità di altro Stato membro con la procedura di consultazione preventiva.

V. Conclusioni

La giurisprudenza sui visti rivela il tentativo di effettuare un bilanciamento tra le posizioni degli Stati e dei cittadini di paesi terzi. La Corte, con approccio garantista, ha cercato di riequilibrare la condizione di svantaggio “strutturale” del richiedente visto, nell’ottica di rimediare alle carenti garanzie procedurali e ridurre il gap di tutela nei suoi confronti. Il messaggio di fondo è il seguente: se il rilascio di un visto costituisce l’esercizio di un potere sovrano, ciò non significa che detto potere sfugga al principio dello Stato di diritto.

La concessione del visto, atto di sovranità, viene condizionata al rispetto di una serie di garanzie procedurali minime, quali la necessità di un esame individuale e minuzioso della domanda di visto, una motivazione sufficientemente dettagliata in caso di diniego, l’accesso a un ricorso giurisdizionale effettivo. Un tale lavoro interpretativo di “ripristino” dello Stato di diritto, in una disciplina – quella sui visti – caratterizzata da deficit di tutela, opacità delle procedure e discrezionalità decisoria, è stato condotto in un contesto politicamente delicato e sensibile. La Corte, infatti, ha dovuto confrontarsi con la pressione degli Stati, riluttanti a un’espansione delle garanzie procedurali a scapito delle proprie prerogative sul rilascio di visti, come testimoniano i numerosi interventi in causa dei governi. I giudici europei in alcuni casi hanno ceduto a tali pressioni (come nel caso dei visti umanitari). In altri, in un’ottica di equilibrio, hanno controbilanciato gli obblighi procedurali imposti sulle autorità nazionali con il riconoscimento di un ampio margine discrezionale a loro favore.

Nel complesso, le garanzie delineate dalla Corte di Giustizia appaiono senz’altro positive, ancorate all’art. 47 della Carta e poggianti su una logica di tutela procedurale minima e indispensabile. Questa risulta coerente con alcune componenti essenziali dei principi di trasparenza e dello stato di diritto, come la tassatività dei motivi di diniego, l’obbligo di motivazione, e il diritto a presentare un ricorso che consenta un riesame da parte di un giudice indipendente e imparziale. Se questi sviluppi giurisprudenziali sono apprezzabili, rimane tuttavia il problema dell’effettività accessibilità e fruibilità delle garanzie a disposizione del richiedente visto. In particolare, la concreta praticabilità del diritto a un ricorso effettivo spesso potrebbe risultare compromessa.

Normalmente, sono già di per sé numerosi gli ostacoli che si configurano per un cittadino di paese terzo che intendesse proporre ricorso contro un diniego di visto. Ciò, in particolare, a causa, tendenzialmente, delle condizioni economico-sociali individuali, legate al proprio paese di origine. Tali ostacoli si moltiplicano e si accrescono considerevolmente se la domanda di visto è rigettata in esito a una procedura decisionale svolta in collaborazione tra autorità di Stati membri differenti, come negli evidenziati casi degli accordi di rappresentanza ovvero della consultazione preventiva. In questo ultimo caso, la “biforcazione” delle vie di ricorso rischia concretamente di rendere solo virtuale l’effettività dei mezzi di ricorso, il soggetto interessato dovendo interfacciarsi con autorità e procedure diverse, con un dispendio di energie tale, probabilmente, da scoraggiare in molti casi ogni tentativo concreto di contestare il diniego del visto.

L’ipotesi del ricorso da esperirsi avverso il diniego di un visto nel contesto di un accordo di rappresentanza appare non meno problematico da un punto di vista pratico e applicativo. La soluzione prospettata dalla Corte di Giustizia, per cui ai fini della trattazione del ricorso si ha “attrazione” del foro nello Stato di rappresentanza, rischia di comportare sforzi sproporzionati per il richiedente visto. Di modo che, all’atto pratico, l’accesso a un sindacato giurisdizionale effettivo potrebbe risultare spesso compresso.

Non solo: la distribuzione geografica e la disponibilità numerica dei consolati di uno Stato membro potrebbero altresì influire sulla concreta trattazione di un ricorso. Alcuni Stati membri non dispongono di numerosi consolati fuori dall’Ue, altri, invece, hanno un’articolata rete di rappresentanze consolari. In alcuni paesi terzi, particolarmente piccoli o remoti, vi potrebbe essere anche un unico Stato membro operante, il cui consolato potrebbe agire in rappresentanza di altri, potenzialmente numerosi, Stati membri. Se così fosse, in astratto, i giudici di tale unico Stato di rappresentanza verrebbero investiti di tutti i ricorsi presentati da soggetti che intendevano recarsi altrove, non avendo alcun legame con quello Stato membro. [77] Se la logica degli accordi di rappresentanza è quella di facilitare l’accesso a un consolato, evitando al richiedente visto sforzi, viaggi e spese sproporzionati, lo stesso non si può dire con riguardo all’accesso al giudice. Obbligare i cittadini di paesi terzi a presentare ricorso dinanzi ad autorità giudiziarie “estranee”, in quanto operanti in uno Stato membro verso cui essi potrebbero spesso non avere alcun legame o interesse, rischia di incidere negativamente sul diritto a una tutela giurisdizionale effettiva.[78]

In conclusione, con la propria giurisprudenza la Corte di Giustizia è intervenuta sulle garanzie minime in materia di visti, cercando di rimediare a lacune e vuoti di tutela presenti nella disciplina dell’Unione. Ha così cercato di riequilibrare, almeno in parte, la “parità delle armi” tra il cittadino di paese terzo richiedente visto e l’amministrazione statale competente. Il rilascio del visto, alla fine, rimane saldamente nelle mani dello Stato, che decide esercitando la propria prerogativa sovrana fondamentale relativa all’ammissione di cittadini stranieri nel proprio territorio nazionale. Tale potere sovrano è condizionato da una serie di limiti procedurali, e la decisione di rifiutare il visto deve poter essere soggetta a un controllo di natura giurisdizionale.

Alla prova dei fatti, tuttavia, l’effettività della tutela per i richiedenti visto rischia di rimanere spesso illusoria, così come lo spazio di azione dei consolati ancora troppo ampio e sfuggente a un controllo reale.

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European Papers, Vol. 6, 2021, No 1, European Forum, Insight of 9 July 2021, pp. 599-619
ISSN 2499-8249 - doi: 10.15166/2499-8249/490

* Research Fellow, Université Catholique de Louvain, francesco.gatta@uclouvain.be.

[1] Regolamento (CE) n. 810/2009 del Parlamento europeo e del Consiglio del 13 luglio 2009 che istituisce un codice comunitario dei visti, Allegato VI, motivo n. 6. Il Codice dei visti è stato da ultimo riformato nel 2019, con Regolamento (UE) 2019/1155 del Parlamento europeo e del Consiglio del 20 giugno 2019.

[2] Cause riunite C-225/19 e C-226/19 Minister van Buitenlandse Zaken (di seguito R.N.N.S. e K.A.) ECLI:EU:C:2020:951.

[3] L’espressione è dell’Avvocato Generale (AG) Priit Pikamäe, il quale, nelle proprie conclusioni nel caso R.N.N.S. e K.A., sottolinea più volte l’assenza di un diritto soggettivo ad ottenere il rilascio di un visto. La “debolezza” della posizione del richiedente visto si spiega così in rapporto all’amministrazione statale, nei confronti della quale egli non può far valere alcun diritto soggettivo, essendo mero beneficiario della volontà sovrana dello Stato. V. conclusioni dell’AG Pikamäe, presentate il 9 settembre 2020, R.N.N.S. e K.A. cit. par. 58.

[4] Art. 2(2)(a) Codice dei visti. Secondo una definizione della Corte di Giustizia, antecedente all’adozione Codice dei visti, il visto di ingresso si configura come “qualsiasi formalità, mirante ad autorizzare l’ingresso nel territorio di uno Stato membro, prescritta oltre il controllo del passaporto o della carta d’identità alla frontiera, indipendentemente dal luogo o dal momento del rilascio di detta autorizzazione e da qualsiasi forma essa abbia”. Causa C-157/79 Regina / Pieck ECLI:EU:C:1980:179 par. 10.

[5] Sul punto, tuttavia, in dottrina si registrano orientamenti diversi, di cui si darà conto infra.

[6] Si deve osservare peraltro come nemmeno l’ottenimento del visto sia di per sé sufficiente a garantire un diritto assoluto di fare ingresso nel territorio dello Stato. Ciò risulta chiaramente dallo stesso Codice dei visti, il cui art. 30 stabilisce espressamente che “Il possesso di un visto uniforme o di un visto con validità territoriale limitata non conferisce un diritto automatico di ingresso”.

[7] L’origine dell’odierno visto uniforme o “visto Schengen” può ricondursi alla firma, l’11 aprile 1960, della Convenzione relativa al controllo degli spostamenti di persone tra gli Stati Benelux. L’art. 4 della Convenzione prevedeva un’armonizzazione delle rilevanti normative in materia e l’istituzione di un visto uniforme valevole per i territori degli Stati dell’area Benelux. In argomento v. JY Carlier e S Sarolea, Droits des étrangers (Larcier 2016) 133 ss.

[8] Art. 77(2)(a) TFUE. L’espressione “politica comune” indica l’intento di sviluppare un insieme armonico e coerente di strumenti, basato su una comune programmazione, legislazione e implementazione. L’accento è posto sul ruolo dell’Unione e sul valore aggiunto che può derivare dalla sua azione. Tale nozione, nel TFUE, non è associata a tutti gli ambiti relativi alla migrazione. Per le frontiere, ad esempio, si parla solo di “politica” e di “sistema integrato” (art. 77(1) e (2)(d)), mentre ci si riferisce allo sviluppo di una “politica comune” anche per il settore dell’asilo (art. 78(1)). Sulla nozione di politica comune, v. P De Bruycker, ‘Pour un agenda européen de recherche en matière d’immigration et d’asile’ (2016) Revue critique trimestrielle de jurisprudence et de législation 104.

[9] La vigente normativa dell’Unione riguarda i visti di breve durata (fino a tre mesi), mentre i visti per soggiorni di lunga durata sono responsabilità primaria dei singoli Stati. L’art. 79(2)(a) TFUE prevede che il legislatore dell’Unione possa adottare misure sul rilascio di visti di lunga durata. Tale competenza non è ancora stata esercitata in concreto.

[10] Il Considerando n. 2 del Codice dei visti, come riformato nel 2019, ne conferma il carattere versatile, affermando che la politica dei visti dell’Unione dovrebbe essere impiegata “nella cooperazione con i paesi terzi e per garantire un migliore equilibrio tra le preoccupazioni in materia di migrazione e di sicurezza, le considerazioni economiche e le relazioni esterne in generale”.

[11] Circa la metà delle domande di visto avanzate nel 2019 proveniva da tre Stati: Russia (oltre 4 milioni), Cina (circa 3 milioni), India (circa 1 milione). Il maggior numero di richieste è stato ricevuto e processato dalle autorità diplomatico-consolari di Francia (circa 4 milioni), Germania e Italia (poco più di 2 milioni, in entrambi i casi). Per una panoramica relativa ai dati sui visti Schengen nel 2019, si veda il comunicato della Commissione: European Commission Migration and Home Affairs, ‘Visa statistics: Schengen States issue 15 million visas for short stays in 2019’ (4 Maggio 2020) ec.europa.eu. Statistiche analitiche e dettagliate sono disponibili sul sito Schengen Visa Info, all’indirizzo: www.schengenvisainfo.com. Quanto al rilascio di visti nel 2020, le statistiche rivelano un prevedibile crollo nei numeri, dovuto alla pandemia da Covid-19 e alle conseguenti restrizioni per la mobilità internazionale. Secondo i dati diffusi dalla Commissione europea, a fronte di circa 3 milioni di richieste, nel 2020 sono stati rilasciati circa 2,5 milioni di visti di breve durata (pari a circa l’83% in meno rispetto al 2019). Per maggiori dettagli si veda il comunicato European Commission Migration and Home Affairs, ‘Visa statistics: Pandemic effect on short stay visa in 2020’ (10 Maggio 2021) ec.europa.eu. Per l’impatto della pandemia da Covid-19 sul sistema dei visti Schengen, v. Communication C(2020)2050 final from the Commission of 30 March 2020, Guidance on the implementation of the temporary restriction on non-essential travel to the EU, on the facilitation of transit arrangements for the repatriation of EU citizens, and on the effects on visa policy.

[12] A titolo esemplificativo, nella Dichiarazione UE-Turchia del 18 marzo 2016, la liberalizzazione dei visti a favore dei cittadini turchi figurava, tra l’altro, come specifica contropartita per gli impegni assunti dal governo turco nel contenimento dei flussi migratori verso la Grecia.

[13] Per una panoramica sulle origini e gli sviluppi delle politiche europee in materia di riammissione, v. JP Cassarino, ‘Il sistema ibrido della riammissione: genealogia di un allineamento tra sovranazionalismo e bilateralismo’ (28 febbraio 2020) ADiM Blog www.adimblog.com; F Casolari, ‘L’interazione tra accordi internazionali dell’Unione europea ed accordi conclusi dagli Stati membri con Stati terzi per il contrasto dell’immigrazione irregolare’ (2018) Diritto, Immigrazione e Cittadinanza 8 ss; M Giuffré, ‘Obligation to Readmit? The Relationship Between Interstate and EU Readmission Agreements’ in F Ippolito and S Trevisanut (eds), Migration in the Mediterranean. Mechanisms of International Cooperation (Cambridge University Press 2015) 263 ss; JP Cassarino, Readmission Policy in the European Union (Study for the LIBE Committee European Parliament 2010).

[14] A titolo esemplificativo, già nel 2002 la Commissione parlava di “effetto leva” con riguardo alle riammissioni, ragionando dei possibili incentivi per stimolare la cooperazione dei paesi terzi. Tra le diverse opzioni, venivano considerate anche le “facilitazioni nel rilascio dei visti o l'eliminazione del requisito del visto”. V. Comunicazione COM(2002)564 final della Commissione europea del 14 ottobre 2002 Una politica comunitaria in materia di rimpatrio delle persone soggiornanti illegalmente 26.

[15] Comunicazione COM(2020) 609 final della Commissione europea del 23 settembre 2020 Un nuovo patto sulla migrazione e l’asilo.

[16] Art. 25bis, Codice dei visti cit. In argomento, N Vavoula, ‘Of Carrots and Sticks: A Punitive Shift in the Reform of the Visa Code’ (5 Settembre 2018) EU Immigration Law Blog eumigrationlawblog.eu. Sulla riforma del Codice dei visti del 2019 si vedano anche le letture critiche di S Nicolosi, ‘Refashioning the EU Visa Policy: A New Turn of the Screw to Cooperation on Readmission and to Discrimination?’ (2020) European Journal of Migration and Law 476; E Guild, ‘Amending the Visa Code: Collective Punishment of Visa Nationals?’ (10 Maggio 2019) EU Immigration Law Blog eumigrationlawblog.eu.

[17] Sul punto in dottrina si sono espresse visioni fortemente critiche del nuovo sistema di condizionalità previsto dal Codice dei visti, che non si è esitato a definire quale meccanismo di “collective punishment” (E Guild, ‘Amending the Visa Code: Collective Punishment of Visa Nationals?’ cit.) o “unethical blackmail” (S Nicolosi, ‘Refashioning the EU Visa Policy: A New Turn of the Screw to Cooperation on Readmission and to Discrimination?’ cit.).

[18] Sui profili di connessione tra le politiche dei visti e delle riammissioni alla luce del Nuovo Patto, v. P Garcia Andrade, ‘EU Cooperation on Migration with Partner Countries Within the New Pact: New Instruments for a New Paradigm?’ (8 Dicembre 2020) EU Immigration Law Blog eumigrationlawblog.eu; JP Cassarino, ‘Readmission, Visa Policy and the “Return Sponsorship” Puzzle in the New Pact on Migration and Asylum’ (30 Novembre 2020) ADiM Blog www.adimblog.com; S Nicolosi, ‘Refashioning the EU Visa Policy: A New Turn of the Screw to Cooperation on Readmission and to Discrimination?’ cit.; F Martines, ‘Il nuovo Patto sulla migrazione e l’asilo e la riammissione dei migranti irregolari da parte dei paesi di origine o di transito’ (2020) I Post di AISDUE II/2020 44-61; E Guild, ‘Negotiating with Third Countries Under the New Pact: Carrots and Sticks?’ (27 November 2020) eumigrationlawblog eumigrationlawblog.eu.

[19] Causa C-638/16 PPU X e X c État belge ECLI:EU:C:2017:173. Nelle proprie conclusioni, l’AG Mengozzi aveva evidenziato come la Corte avesse “l’occasione di andare più avanti […] sancendo la via legale di accesso alla protezione internazionale che risulta dall’articolo 25, paragrafo 1, lettera a), del codice dei visti”, per poi precisare: “non è perché lo detti l’emozione, bensì perché il diritto dell’Unione lo impone”. X e X c État belge cit. Conclusioni dell’AG Mengozzi par. 175.

[20] C.Edu M.N. e altri c Belgio Ric. n. 3599/18 [5 maggio 2020].

[21] Un primo tentativo in tal senso si rinviene negli emendamenti presentati dal Parlamento europeo nel contesto della proposta di riforma del Codice dei visti avanzata nel 2014 dalla Commissione europea (COM(2014)164 def. 1 aprile 2014). Quindi, ancora, nel 2018, con un’iniziativa ex art. 225 TFUE volta alla predisposizione di una proposta di regolamento per un visto umanitario europeo (Risoluzione 2018/2271(INL) del Parlamento europeo dell’11 dicembre 2018, recante raccomandazioni alla Commissione concernenti i visti umanitari). Per un’analisi degli emendamenti presentanti dal Parlamento europeo nel 2014, v. S Peers, ‘External Processing of Applications for International Protection in the EU’ (24 April 2014) EU Law Analysis eulawanalysis.blogspot.com. Per un’analisi dell’iniziativa del 2018, v. FL Gatta, ‘La “saga” dei visti umanitari tra le Corti di Lussemburgo e Strasburgo, passando per il legislatore dell’Unione europea e le prassi degli Stati membri’ (2019) Dirittifondamentali.it 16-20.

[22] Alla luce della complessità e della varietà delle fonti, in dottrina la disciplina sui visti è stata complessivamente definita come “abundant, fragmented, and dispersed”. V. V Moreno-Lax, Accessing Asylum in Europe. Extraterritorial Border Controls and Refugee Rights under EU Law (Oxford University Press 2018) 83.

[23] Regolamento (UE) 2018/1806 del Parlamento europeo e del Consiglio del 14 novembre 2018, che adotta l'elenco dei paesi terzi i cui cittadini devono essere in possesso del visto all'atto dell'attraversamento delle frontiere esterne e l'elenco dei paesi terzi i cui cittadini sono esenti da tale obbligo.

[24] Regolamento (UE) 2019/817 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 20 maggio 2019, che istituisce un quadro per l'interoperabilità tra i sistemi di informazione dell'UE nel settore delle frontiere e dei visti e che modifica i regolamenti (CE) n. 767/2008, (UE) n. 2016/399, (UE) 2017/2226, (UE) 2018/1240, (UE) 2018/1726 e (UE) 2018/1861 del Parlamento europeo e del Consiglio e le decisioni 2004/512/CE e 2008/633/GAI del Consiglio. Per un’analisi del sistema VIS, anche in relazione ad altre banche dati istituite a livello dell’Ue e in un’ottica di maggiore digitalizzazione della sorveglianza delle frontiere, v. S Marinai, ‘Il rafforzamento del controllo digitale nel nuovo Patto sulla migrazione e l’asilo’ (2020) I Post di AISDUE, II/2020, in particolare 125 ss. Gli obiettivi di maggiore sicurezza e controllo della mobilità nello spazio Schengen appaiono peraltro ulteriormente perseguiti dalla riforma del regolamento sul sistema VIS, in fase di realizzazione nel momento in cui si scrive. In argomento si veda la posizione del Consiglio in prima lettura adottata il 27 maggio 2021 (5950/1/21 REV 1), nonché il comunicato stampa 405/21 del 27 maggio 2021, Consiglio dell’UE, ‘Sistema di informazione visti: il Consiglio adotta un regolamento per rafforzare i controlli sui richiedenti visto’.

[25] Art. 1, Codice dei visti cit. La disciplina dei visti di breve durata interessa gli Stati membri dell’Ue (ad esclusione dell’Irlanda), nonché Islanda, Liechtenstein, Norvegia e Svizzera.

[26] Sulla politica comune dei visti e la progressiva comunitarizzazione della cooperazione tra servizi diplomatici, v. AM Fernandez, ‘Consular Affairs in an Integrated Europe’ in J Melissen e AM Fernandez (a cura di), Consular Affairs and Diplomacy (Brill Nijhoff 2011) 97-114; AM Fernandez,’Consular Affairs in the EU: Visa Policy as a Catalyst for Integration?’ (2008) The Hague Journal of Diplomacy 21-35; A Meloni, Visa Policy within the EU Structure (Springer 2006); E Jileva, ‘The Europeanisation of the EU’s Visa Policy’ (2004) Helsinki Monitor, Quarterly on Security and Cooperation in Europe 23-31.

[27] In questo senso il visto si distingue dai controlli di frontiera. Entrambi condividono un intento “difensivo” e di verifica dei requisiti per l’ingresso, ma il visto si distingue in quanto pre-departure measure, configurando un controllo anticipatorio e “da remoto”, svolto presso le sedi diplomatico-consolari degli Stati membri. In proposito in dottrina si è parlato di pratiche di “bordering from abroad” (V. Moreno-Lax, Accessing Asylum in Europe. Extraterritorial Border Controls and Refugee Rights under EU Law cit. 81) e di “policing at a distance” (D Bigo and E Guild, ‘Policing at a Distance: Schengen Visa Policies’ in D Bigo e E Guild, Controlling Frontiers: Free Movement into and within Europe (Ashgate 2005) 233). Sulla politica dei visti quale strumento di controllo dei flussi migratori, v. anche M Di Filippo, ‘Contrasto dell’immigrazione irregolare e conseguenze negative sullo status del migrante: Il caso del richiedente visto nel Diritto dell’Unione europea’ in AC Amato Mangiameli, L Daniele, MR Di Simone e E Turco Bulgherini (a cura di), Immigrazione, Marginalizzazione, Integrazione (Giappichelli 2018) 257-217.

[28] Considerando n. 14 e 18 Codice dei visti cit.

[29] Considerando n. 18 Codice dei visti cit.

[30] In dottrina si è parlato, al riguardo, di politica di “global apartheid” da parte dell’Unione europea: H van Houtum, ‘Human Blacklisting: The Global Apartheid of the EU’s External Border Regime’ (2010) Environment and Planning: Society and Space, 957. Per analoghe visioni critiche, v. E Guild e S Carrera, ‘EU Borders and their Controls: Preventing Unwanted Movement of People in Europe?’ (14 November 2013) CEPS Essay www.ceps.eu; R Cholewinski, ‘Border and Discrimination in the European Union’ (2016) Migration Policy Group www.migpolgroup.com; M Den Heijer, ‘Visa and Non-discimination’, European Journal of Migration and Law (2018) 470-489.

[31] E Guild, ‘Amending the Visa Code: Collective Punishment of Visa Nationals?’ cit.

[32] Così l’AG Pikamäe nelle proprie conclusioni nel caso R.N.N.S. e K.A. cit. par. 58.

[33] M Di Filippo, ‘Contrasto dell’immigrazione irregolare e conseguenze negative sullo status del migrante: il caso del richiedente visto nel diritto dell’Unione europea’ cit. 266.

[34] Segnatamente, il primo par. dell’art. 32 individua i diversi motivi di diniego, il secondo par. disciplina l’obbligo di motivazione, mentre il terzo sancisce il diritto a presentare ricorso contro la decisione di diniego.

[35] Il numero contenuto di casi in tema di visti può essere spiegato con la circostanza per cui per il cittadino di paese terzo, all’atto pratico, risulta complesso (e dispendioso) intraprendere la via di un ricorso giurisdizionale trovandosi fuori dal territorio dell’Unione europea. Oltre alle difficoltà nell’accedere alle corti degli Stati membri, un ulteriore fattore frenante potrebbe risiedere nell’assenza di vantaggi diretti e immediati durante la procedura di ricorso, diversamente da quanto avviene nel caso dell’asilo. In argomento v. D Thym, ‘A Bird’s Eye View on ECJ Judgments on Immigration, Asylum and Border Control Cases’ (2019) European Journal of Migration and Law 21/2019 170-171.

[36] Segnatamente C-84/12 Koushkaki ECLI:EU:C:2013:862; X and X cit., R.N.N.S. and K.A. cit. Anche la sentenza nel caso Fahimian, sebbene non direttamente legato al Codice dei visti, ma rilevante in tema di visti per motivi di studio, è stata pronunciata dalla Grande Sezione (C-544/15 Fahimian ECLI:EU:C:2017:255).

[37] X e X v État Belge cit.

[38] V. supra, nota 11.

[39] Causa C-680/17 Vethanayagam ECLI:EU:C:2019:627.

[40] Causa C-83/12 PPU ECLI:EU:C:2012:202 e Causa C-575/12 Air Baltic Corporation AS ECLI:EU:C:2014:2155.

[41] La Corte si è occupata anche di visti per soggiorni di lunga durata (oltre 90 giorni), chiarendo che, poiché il legislatore dell’Ue non ha esercitato la competenza di cui all’art. 79(2)(a) TFUE, le procedure e le condizioni di rilascio di detti visti rientrano esclusivamente nell’ambito di applicazione del diritto nazionale. Al riguardo si veda X e X v État Belge, cit., in materia di visti umanitari, ovvero, più di recente, la sentenza nella causa C-949/19 M.A. ECLI:EU:C:2021:186, relativa al diniego di visto per un soggiorno di lunga durata legato a motivi di studio.

[42] L’art. 32(1) del Codice dei visti, però, fa salva la possibilità di rilasciare un visto a validità territoriale limitata ex art. 25(1).

[43] Come chiarito dalla Corte, ancor prima dell’adozione del Codice dei visti, l’automatismo del diniego del visto è espressione del principio di cooperazione tra gli Stati membri, nonché elemento indispensabile per “garantire un livello elevato e uniforme di controllo e sorveglianza alle frontiere esterne in corollario con il libero attraversamento delle frontiere all’interno dello Spazio Schengen”. Causa C-505/03 Commissione c Spagna ECLI:EU:C:2006:74, par. 37.

[44] Koushkaki cit.

[45] Ibid. par. 45.

[46] L’AG Mengozzi, nelle proprie conclusioni, si era nettamente opposto alla possibilità di configurare un diritto ad ottenere un visto. Cfr. Koushkaki cit., Conclusioni dell’AG Mengozzi, specialmente par. 46-59. Contra, invece, evocando un implicito diritto al rilascio del visto ove al richiedente non fosse opponile alcuno dei motivi di diniego, S Peers, ‘Do Potential Asylum-Seekers Have a Right to a Schengen Visa?’(20 January 2014) EU Law Analysis eulawanalysis.blogspot.com.

[47] Koushkaki cit. par. 56.

[48] Ibid. par. 59.

[49] Tale criterio non è menzionato dal Codice dei visti, ed è stato criticato in dottrina come eccessivamente vago. Steve Peers si chiede ironicamente se, in conformità alla sentenza Koushkaki, le ambasciate e i consolati degli Stati membri debbano dotarsi di uno psichiatra nel proprio personale, al fine di svolgere un esame “minuzioso” e valutare correttamente la “personalità” di ciascun richiedente visto. V. S Peers, ‘Do Potential Asylum-Seekers Have a Right to a Schengen Visa?’ cit.

[50] Koushkaki cit. par. 68-70.

[51] Fahimian cit. Per un’analisi e un commento della sentenza, v. K Eisele, ‘Public Security and Admission to the EU of Foreign Students: Fahimian’ (2018) Common Market Law Review 279.

[52] Fahimian cit. par. 50.

[53] Tra gli elementi richiamati dalla sentenza Koushkaki, in Fahimian la Corte riprende quello della “personalità” del soggetto, quale profilo da valutarsi anche nella decisione su una domanda di visto per motivi di studio.

[54] Ibid. par. 46.

[55] Affermava il Parlamento europeo, all’epoca, come l’esplicita inclusione di una disposizione sul diritto di ricorso rappresentasse “a key element” in termini di garanzie per i richiedenti visti. V. Council of the European Union, Draft Regulation of the European Parliament and of the Council establishing a Community Code on Visas [2009], document n. 7293/09, p. 2.

[56] Fundamental Rights: Challenges and Achievements in 2013 – Annual Report 2013, European Union Agency for Fundamental Rights, 2014, p. 69 ss. Si veda, analogamente, anche il rapporto per l’anno 2012, segnatamente p. 91 ss.

[57] Si trattava, nello specifico, di procedure avviate nel 2013 contro Repubblica Ceca, Estonia, Finlandia, Ungheria, Polonia e Slovacchia. I sistemi di ricorso di tali Stati non prevedevano, in alcuna fase della procedura, l’accesso a un organo di natura giurisdizionale. Le procedure di infrazione sono state quindi chiuse dalla Commissione nel corso degli anni successivi. Nel caso della Slovacchia, in particolare, nel maggio 2018 si era giunti al deferimento alla Corte di Giustizia ex art. 258 TFUE. La Commissione europea, poi, nel gennaio 2019, ha ritirato il ricorso per infrazione. Per maggiori dettagli su queste procedure di infrazione, v. i comunicati stampa della Commissione europea, MEMO/14/589 del 16 ottobre 2014 e MEMO 14/2130 del 26 novembre 2014. Con riguardo alla Slovacchia, v. decisione INFR(2012)2237 della Commissione europea del 24 gennaio 2019.

[58] Causa C-403/16 El Hassani ECLI:EU:C:2017:960.

[59] Alcuni degli Stati membri all’epoca coinvolti nella procedura di infrazione intervennero nella causa El Hassani (segnatamente, oltre alla Polonia, Repubblica Ceca ed Estonia). Specularmente, anche la Commissione europea intervenne, sostenendo la necessità di predisporre un ricorso di natura giurisdizionale avverso le decisioni di diniego di un visto Schengen.

[60] El Hassani cit. conclusioni dell’AG Bobek, par. 111.

[61] Causa C-949/19 M.A. ECLI:EU:C:2021:186 .

[62] Direttiva (UE) 2016/801 del Parlamento europeo e del Consiglio dell’11 maggio 2016 relativa alle condizioni di ingresso e soggiorno dei cittadini di paesi terzi per motivi di ricerca, studio, tirocinio, volontariato, programmi di scambio di alunni o progetti educativi, e collocamento alla pari, segnatamente art. 3(21) e (23).

[63] Causa C-680/17 Vethanayagam ECLI:EU:C:2019:627.

[64] Art. 8(1) Codice dei visti cit. Il singolo accordo andrà poi a dettagliare i termini della collaborazione, compresi aspetti quali tipologia e durata della rappresentanza, eventuale versamento di un corrispettivo da parte dello Stato rappresentato, messa a disposizione di locali e personale, ecc. Ai sensi dell’art. 8(7) e (8), della conclusione di un accordo bilaterale di rappresentanza, così come della sua cessazione, sono prontamente informati, rispettivamente, sia la Commissione europea, sia i consolati degli altri Stati membri.

[65] Vethanayagam cit. Conclusioni dell’AG Sharpston, presentate il 28 marzo 2019. La posizione dell’AG è stata sostenuta anche dal governo italiano, unico, in questo senso, tra i diversi Stati intervenuti in causa. Per un’analisi e un commento delle conclusioni dell’AG, v. G Renaudiere, ‘La décision de refus de visa: une autonomie procédurale encadrée (1 June 2019) Cahiers de l’EDEM uclouvain.be.

[66] Ibid. par. 65

[67] Ibid. par. 76-77.

[68] Il fatto che la Svizzera non sia uno Stato membro dell’Ue è irrilevante agli occhi della Corte. Detto paese, si osserva, è membro del Consiglio d’Europa, è vincolato dalla CEDU e, in quanto associato all’acquis di Schengen, è tenuto al rispetto dei diritti umani.

[69] Nella dottrina olandese, in particolare, v. ER Brouwer, ‘Uitspraak uitgelicht: Gebrekkige Rechtsbescherming bij Visumweigering op basis van Vertegenwoordiding’ (2016) Asiel & Migrantenrecht 190; Migration Law Clinic, ‘Access to Legal Remedies Against a Visa Refusal Based on an Objection of Another Member State’ (2019) University of Amsterdam, Migration Law Clinic 18-19.

[70] R.N.N.S. e K.A. cit.

[71] Art. 22(2) Codice dei visti cit. Ai sensi del par. 3 della medesima norma, lo Stato membro che attiva la procedura di consultazione ne dà comunicazione alla Commissione europea.

[72] Si noti anche il Considerando n. 15 del Codice dei visti riformato, ove si legge che “la notifica del rifiuto dovrebbe contenere informazioni dettagliate sui motivi di rifiuto e sulle procedure di ricorso. Durante la procedura di ricorso i richiedenti dovrebbero avere accesso a tutte le informazioni pertinenti al loro caso in conformità del diritto nazionale”.

[73] Causa C-554/13 Z. Zh. e O. ECLI:EU:C:2015:377.

[74] JY Carlier, L Leboeuf, ‘Droit européen des migrations’ (2021) Journal de Droit Européen 142.

[75] Queste considerazioni erano state svolte dall’AG Pikamäe, con analogo ragionamento a quello dell’AG Sharpston in Vethanayagam. Cfr. R.N.N.S. e K.A. cit., Conclusioni dell’AG Pikamäe, par. 131-133. Sul punto v. anche E Frasca, ‘No Objection Without Substantiation? The Visa Applicant’s Right to an Effective Remedy in the Case of Consultation Procedures’ (December 2020) Cahiers de l’EDEM uclouvain.be.

[76] R.N.N.S. e K.A. cit. par. 55.

[77] Per illustrare le possibili difficoltà pratiche che potrebbero emergere in tema di ricorso, l’AG Sharpston, nelle proprie conclusioni nel caso Vethanayagam, porta l’esempio del Gibuti, paese presso cui la Francia è l’unico Stato membro dell’Ue presente con proprie autorità consolari. Il consolato francese in tale paese terzo rappresenta altri 17 Stati membri ai fini della trattazione delle domande di visto. Su queste basi, osserva l’AG, i giudici francesi potrebbero potenzialmente essere chiamati a pronunciarsi su ricorsi contro decisioni di rifiuto del visto presentati da diversi cittadini di paesi terzi, i quali intendevano recarsi non in Francia, bensì in uno dei differenti 17 Stati membri rappresentati. V. Conclusioni dell’AG Sharpston nella causa Vethanayagam, cit. par. 84. Per maggiori dettagli sulle rappresentanze consolari degli Stati membri dell’Ue, si veda il sito internet ufficiale della Commissione europea, il quale, alla voce protezione consolare, presenta un motore di ricerca che consente di visualizzare tutte le rappresentanze consolari degli Stati membri presenti nel mondo (“find an embassy/consulate”, disponibile all’indirizzo: ec.europa.eu).

[78] Tali considerazioni sono state espresse anche dall’AG Pikamäe nel caso R.N.N.S. e K.A. con riguardo al caso del visto rifiutato in esito a una procedura di consultazione preventiva tra più Stati. Egli conferma, sulla scia di quanto espresso dall’AG Sharpston, che individuare il foro per il ricorso presso altro e diverso Stato, rispetto a quello di destinazione del richiedente visto, comporta “uno sforzo particolare” per il ricorrente, come tale idoneo a incidere negativamente sul diritto a una tutela giurisdizionale effettiva. V. Conclusioni dell’AG Pikamäe nella causa R.N.N.S. e K.A., cit. par. 132.

 

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