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Abstract: The reference of the Constitutional Court for a preliminary ruling under Art. 267 TFEU in the follow-up of the Taricco case (Court of Justice, judgment of 8 September 2015, case C-105/14, Taricco et al. [GS]) should not be read as a bold challenge to the Court of Justice’s ruling, but as an opportunity for a real dialogue between the two Courts on very delicate questions: the protection of fundamental rights, namely the principle of legality in criminal matters, and the possibility for Member States to maintain their higher level of protection in the scope of EU law. The referring Court offered three different solutions, each of which, in its view, would have avoided a clash between EU law and the basic principles of the Constitutional legal order. In case all the solutions were rejected, the Constitutional Court warned that this might trigger the so called “counter-limits” rule. Under this rule, EU law infringing fundamental principles of the national legal order or human rights as protected under the Constitution should not be enforced by Italian courts. The opinion delivered by AG Bot is not promising. Mr. Bot proposes to give a negative answer for each of the three preliminary questions and indicates that the ruling in Taricco should be confirmed as a whole. Were the Court of Justice to follow the Advocate General entirely, the clash with the Italian Constitutional Court would become almost unavoidable. The aim of this Insight is to point out at the many good grounds under which the Court of Justice may adopt a more understanding attitude towards the Constitutional Court and inaugurate a real dialogue between the two Courts.
Keywords: principle of legality in criminal matters – Charter of fundamental rights of the European Union – European Convention on Human Rights – Italian Constitution – Italian Constitutional Court – primacy of EU law.
I. Introduzione
Nonostante sia stata rappresentata come un incontro di football se non addirittura di boxe, l’ordinanza del 26 novembre 2016, n. 24 della Corte costituzionale andrebbe vista come un segnale di grande apertura verso la Corte di giustizia. Con l’ordinanza infatti la Corte costituzionale ha voluto inaugurare, come mai prima di allora, un dialogo franco e diretto, ma anche intensamente dialettico, intorno alle questioni assai delicate sollevate dalla sentenza Taricco.[1] Si noti che tali questioni appaiono senza dubbio molto più complesse di quelle di “assaggio” che erano stato oggetto dei due primi rinvii pregiudiziali da parte della Corte costituzionale.[2]
A fronte di una sentenza come la Taricco, difficile per gli aspetti affrontati e forse alquanto sbrigativa nelle soluzioni individuate, la Corte costituzionale ha inteso offrire alla Corte di giustizia l’occasione per ritornare sui punti più problematici. Dopo aver spiegato i propri dubbi, con argomentazione molto ricca e forse addirittura prolissa e talora ripetitiva, la Corte costituzionale, con le tre questioni pregiudiziali, ha indicato un corrispondente numero di diverse soluzioni che avrebbero consentito alla Corte di giustizia di rispondere in maniera “incruenta” alle delicate questioni che la sentenza Taricco aveva sollevato per l’ordinamento italiano. Veniva chiesto infatti alla Corte di giustizia di riflettere sul se non fosse possibile correggere, o almeno precisare in senso meno “categorico”, il dictum della sentenza.
Vero è che la Corte costituzionale, nell’ordinanza, si riferiva abbastanza chiaramente alla eventualità che si rendesse necessario ricorrere alla nota teoria dei “controlimiti”, vietando ai giudici italiani di conformarsi alla sentenza. Una tale soluzione tuttavia veniva evocata soltanto come un’eventualità per l’ipotesi, anch’essa eventuale, che la Corte di giustizia rispondesse negativamente a tutte e tre le questioni pregiudiziali e avesse così reso necessario, per la Corte costituzionale, valutare se i citati controlimiti fossero stati davvero infranti. Da questo punto di vista, sembra eccessivo muovere alla Corte costituzionale il rimprovero di aver formulato, menzionando la descritta eventualità, una vera e propria minaccia dello stesso tenore di quella addebitata al Bundesverfassungsgericht nel caso Gauweiler.[3]
Ad avviso di chi scrive sarebbe invece molto importante che il messaggio di apertura e di dialogo della Corte costituzionale non fosse del tutto respinto al mittente. Questo è purtroppo quanto potrebbe verificarsi se la Corte di giustizia dovesse rispondere alle questioni pregiudiziali così come ha proposto l’AG Bot nelle sue conclusioni del 18 luglio 2017.[4]
L’AG Bot infatti suggerisce di rispondere negativamente a tutte e tre le questioni pregiudiziali. Se la Corte di giustizia dovesse davvero seguire il suggerimento, sarebbe difficile evitare che, nel prosieguo del giudizio davanti alla Corte costituzionale, emerga il problema dei controlimiti e si possa arrivare a un vero e proprio conflitto tra le due Corti.
Come è noto, le conclusioni dell’Avvocato generale non vincolano la Corte di giustizia. Questa potrebbe rispondere a questa o a quella questione pregiudiziale in senso diverso. Sarebbe anche possibile che, a parità di risposta alle questioni pregiudiziali, le motivazioni esposte dalla Corte di giustizia differiscano anche di molto rispetto a quelle proposte dall’Avvocato generale. Nondimeno, considerata l’importanza della posta in gioco, è sembrato utile, in attesa della sentenza, cercare di chiarire sin d’ora i punti più discutibili delle conclusioni. Questo è infatti l’obiettivo del presente commento.
Esso sarà svolto secondo lo schema seguente. Dopo aver ripreso brevemente i punti essenziali della vicenda (paragrafo II), affronteremo la parte introduttiva delle conclusioni che precede le singole risposte suggerite dall’AG Bot a proposito delle varie questioni pregiudiziali. In questa parte, noteremo come l’Avvocato generale, pur riconoscendo la fondatezza di alcune delle critiche della Corte costituzionale, non ne tragga le conseguenze e si astenga dal proporre alla Corte di giustizia di correggere la sentenza. Al contrario, egli suggerisce che la Corte si esprima a favore di un regime propriamente autonomo dell’interruzione della prescrizione, regime da cui sia escluso ogni “termine di prescrizione assoluto” (paragrafo III).[5]
Passando alla prima questione, si evidenzierà come l’Avvocato generale concordi con la Corte costituzionale: i criteri indicati dalla sentenza Taricco, in presenza dei quali il giudice italiano dovrebbe disapplicare le norme italiane sulla prescrizione in materia penale, sono troppo generici. Egli suggerisce però che il problema vada risolto dal legislatore dell’Unione, facendo proprio quanto previsto dalla proposta di direttiva relativa alla lotta contro la frode che lede gli interessi finanziari dell’Unione mediante il diritto penale (c.d. direttiva PIF).[6] Tale suggerimento, si noterà, non è tuttavia ripreso nelle conclusioni finali (paragrafo IV).
Esaminando la risposta proposta per la seconda questione pregiudiziale, il cui punto focale consiste nell’interpretazione dell’art. 53 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, evidenzieremo come l’Avvocato generale si appoggi, in sostanza, sul precedente dalla sentenza Melloni.[7] Egli si rifiuta però di vedere, come invece sostenuto dalla Corte costituzionale, la differenza di questo caso rispetto al caso Taricco (paragrafo V).
Infine, commentando la risposta che l’AG Bot propone per la terza e ultima questione pregiudiziale, osserveremo come l’Avvocato generale assuma che tocchi alla Corte di giustizia decidere in che cosa consiste l’identità nazionale degli Stati membri ai sensi dell’art. 4, par. 2, TUE. In particolare, spetterebbe alla Corte di giustizia stabilire se una determinata norma del diritto dell’Unione violi o meno l’identità nazionale di un determinato Stato (paragrafo VI).
Svolgeremo poi alcune considerazioni sulla ricostruzione, da parte dell’Avvocato generale, della giurisprudenza della Corte europea dei diritti umani in merito all’art. 7 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), e sulla possibilità di utilizzare i risultati di tale giurisprudenza ai fini dell’interpretazione dell’art. 49 della Carta (paragrafo VII).
In chiusura, metteremo in rilievo come le risposte suggerite dall’Avvocato generale, in particolare quelle relative alla seconda e alla terza questione della Corte costituzionale, pongano il problema dell’applicazione retroattiva di un regime di prescrizione meno favorevole all’accusato nella sola prospettiva dell’ordinamento dell’Unione, mentre la Corte costituzionale vede tale problema nella prospettiva dell’ordinamento italiano e, in particolare, dell’art. 25, comma 2, della Costituzione. In questo modo, il discorso si svolge su due livelli che restano distinti e difficilmente conciliabili (paragrafo VIII).
II. Brevi cenni sul caso Taricco e sul suo seguito
Come si ricorderà, con la sentenza Taricco la Corte di giustizia aveva richiesto ai giudici italiani di disapplicare, in forza del primato dell’art. 325 TFUE, il regime di prescrizione in materia penale introdotto dalla legge 5 dicembre 2005, n. 251 (legge ex-Cirielli), attraverso la modifica degli artt. 160 e 161 c.p.
Il nuovo regime prevedeva che l’interruzione del termine di prescrizione non potesse comportare una proroga del termine stesso di oltre un quarto, creando così un sistema a volte definito come “termine di prescrizione assoluto” o, nella terminologia francese, “délai fixe”. Nei fatti, esso si era tradotto nell’impossibilità di pervenire a sentenza di condanna definitiva per alcuni reati complessi i cui termini di prescrizione fossero alquanto brevi. In particolare, i procedimenti riguardanti le frodi “carosello” in materia di IVA non giungevano mai a termine, essendo i reati giudicati sistematicamente estinti per prescrizione.[8] Comportando l’evasione di tale imposta, di cui una percentuale costituisce una risorsa propria del bilancio unitario, ciò pregiudicava anche (ma non solamente!) gli interessi finanziari dell’Unione.
Secondo la Corte di giustizia, tale regime non è conforme alle esigenze di effettività richieste dall’art. 325, par. 1, TFUE e forse nemmeno al principio di equivalenza rispetto a regimi applicabili a reati paragonabili ma puramente “interni”, come prescritto dal par. 2 dello stesso articolo. Gli artt. 160 e 161 c.p. devono pertanto essere disapplicati ai processi per frodi carosello. Benché il dispositivo non contenga alcuna precisazione in merito all’applicazione temporale di tale obbligo di disapplicazione, dal contesto della sentenza e da alcuni spunti presenti nella motivazione si può dedurre, o almeno presumere, che la disapplicazione degli artt. 160 e 161 c.p. debba valere anche in relazione a casi pendenti al momento della pronuncia della sentenza stessa.
Tale soluzione era stata accolta dalla giurisprudenza italiana di merito e finanche di legittimità in maniera molto varia. Alcune pronunce hanno seguito la sentenza Taricco, dichiarando non prescritti anche reati commessi prima della sentenza. Altre hanno interpretato la sentenza con maggiore prudenza, escludendone l’applicazione in casi del genere.[9] Altre pronunce ancora hanno sollevato incidente di costituzionalità per violazione dell’art. 25, comma 2, della Costituzione.[10] Veniva osservato che la disapplicazione richiesta dall’art. 325 TFUE, come interpretato dalla sentenza Taricco, di un regime di prescrizione più favorevole agli imputati, si sarebbe posta in contraddizione con i principi fondamentali dell’ordinamento italiano e con le libertà inviolabili della persona umana. Ciò avrebbe fatto scattare la nota teoria dei “controlimiti”. Si ricorderà che, secondo tale teoria, il diritto dell’Unione che violasse i richiamati principi e libertà non potrebbe trovare applicazione da parte dei giudici italiani.
A fronte di ben due ordinanze di costituzionalità, la Corte costituzionale ha preferito, invece di pronunciarsi direttamente, adire la Corte di giustizia ai sensi dell’art. 267 TFUE. L’ordinanza n. 24/2017, ricostruito il problema e valutatolo alla luce dell’art. 25, comma 2, della Costituzione, considerato a sua volta come principio fondamentale dell’ordinamento costituzionale italiano e rientrante nell’identità nazionale ai sensi dell’art. 4, par. 2, TUE, solleva tre distinte questioni pregiudiziali.
Come si è detto, ciascuna delle tre questioni sviluppa una diversa soluzione che, nella visione della Corte costituzionale, consentirebbe alla Corte di giustizia di attenuare il rigore della sentenza Taricco, consentendo ai giudici di non disapplicare gli artt. 160 e 161 c.p. almeno per i reati commessi prima della sentenza e risolvendo, così, le difficoltà che la sentenza aveva creato per l’ordinamento italiano.
III. La sentenza Taricco va confermata tout court o è possibile attenuarne il rigore?
Nella sua parte introduttiva, l’AG Bot propone di ribadire, nella sostanza, la sentenza Taricco.[11] Addirittura propone di andare oltre tale sentenza, affermando la necessità di considerare l’interruzione della prescrizione per reati che danneggiano gli interessi finanziari dell’Unione come una “nozione autonoma” che non ammetterebbe alcun “délai fixe” ovvero “termine di prescrizione assoluto”.[12] Tale nozione comporterebbe che, cessata ciascuna causa di interruzione, un nuovo termine di prescrizione comincerebbe integralmente a decorrere, senza che ciò possa essere limitato nel tempo.[13]
D’altra parte, l’Avvocato generale riconosce ripetutamente la fondatezza delle riserve avanzate dalla Corte costituzionale e ritiene che sarebbe necessario integrare la sentenza Taricco.[14] In proposito considera indispensabile un intervento normativo da parte del legislatore dell’Unione e si richiama a quanto prevede la proposta di direttiva PIF.[15] Si noti che tali considerazioni, a differenza di quelle contenenti la vera e propria conferma della sentenza Taricco, non sono riprese nelle conclusioni finali.
Il ragionamento dell’AG Bot per proporre di confermare la sentenza Taricco, ripercorre per lo più quello seguito in proposito dalla sentenza e pertanto non richiede particolare trattazione in questa sede. L’Avvocato generale insiste sulle critiche rivolte al sistema italiano del termine di prescrizione assoluto,[16] critiche che sono contenute anche nelle “Osservazioni preliminari”, ove vengono citate, in maniera dettagliata, le numerose prese di posizione negative assunte a livello nazionale, europeo e internazionale.[17]
Semmai colpisce che l’Avvocato generale riconosca che l’attuale versione degli artt. 160 e 161 c.p. è stata introdotta per assicurare il rispetto del diritto ad una durata ragionevole del processo, diritto che, come è noto, è protetto anche dall’art. 47 della Carta e dall’art. 6, comma 1, CEDU.[18] Invero, il diritto ad una durata ragionevole del processo in materia penale dovrebbe normalmente giocare a favore dell’imputato, il quale non può essere esposto ad un processo oltre un termine ragionevole dal compimento del reato. Orbene, la mera conferma della sentenza Taricco, escludendo che il termine di prescrizione sia soggetto a limiti temporali in caso di interruzione, comporterebbe il rischio che il processo duri ben oltre una durata ragionevole. In questa ottica, l’art. 47 della Carta sembrerebbe deporre in favore di una correzione della sentenza Taricco e non in una sua semplice conferma.
L’Avvocato generale invece sembra rovesciare l’art. 47 e lo utilizza a favore dell’Unione. L’art. 47 della Carta infatti potrebbe essere invocato per pretendere che, considerata la complessità del reato e le difficoltà delle indagini, alle frodi carosello (comprese quelle già commesse), venga applicato un termine di prescrizione ragionevole, nel senso di un termine più lungo di quello che sarebbe determinato in applicazione degli artt. 160 e 161 c.p.[19]
Originale appare invece la tesi dell’AG Bot di considerare l’interruzione della prescrizione come una nozione autonoma, che escluderebbe il meccanismo del c.d. “délai fixe”.
Invero, l’idea che la Corte di giustizia si senta autorizzata ad elaborare essa stessa una disciplina autonoma dell’interruzione della prescrizione appare, con rispetto, ingenua. Sembra molto improbabile che la Corte possa, con una propria sentenza interpretativa dell’art. 325 TFUE, ricavare una nozione autonoma di un istituto come l’interruzione della prescrizione in materia penale, che si sostituisca a quella accolta dalla legislazione di ciascuno Stato membro.
Da un lato, che la questione della prescrizione dei reati sia una questione procedimentale ovvero sostanziale, non può negarsi che essa riguardi la materia penale, almeno in senso lato. È noto che la competenza dell’Unione in questa materia è limitata e che invece sono gli Stati membri a detenere la competenza normativa “generale” in questo campo.[20] Che, in un contesto del genere, la Corte di giustizia decida di intervenire in via praetoria sembra da escludere.
Dall’altro, un intervento di questo tipo avverrebbe in un settore, la prescrizione e la sua interruzione, nel quale non è rinvenibile quella uniformità di soluzioni seguite dagli Stati membri che invece la Corte ha spesso ritenuto indispensabile per poter elaborare “nozioni autonome”.
Soprattutto, si tratterebbe di una nozione tratta da una norma, l’art. 325 TFUE, che non fa alcun riferimento alla prescrizione e tantomeno alla sua interruzione.
Non si dimentichi poi che la nozione autonoma prospettata dall’Avvocato generale, implicando che il termine di prescrizione riprenda a decorrere interamente una volta cessata l’interruzione, si rivelerebbe molto penalizzante per gli imputati, mentre la sentenza Taricco non si era pronunciata con precisione su quale regime dovesse applicarsi invece degli artt. 160 e 161 c.p. In ciò, l’Avvocato generale sembra suggerire, non una semplice integrazione della sentenza, ma un suo irrigidimento!
Non può infine omettersi di ricordare che, come lo stesso AG Bot ammette, il meccanismo del “délai fixe” è previsto anche nell’art. 12 della proposta di direttiva PIF in termini molto simili a quello previsto dagli artt. 160 e 161 c.p. L’Avvocato generale è quindi costretto a criticare la soluzione allo studio e ne chiede la modifica in sede di approvazione.[21]
IV. Potrebbero essere meglio precisati i criteri della sentenza Taricco?
Dopo questa lunga introduzione, l’AG Bot affronta più specificamente le questioni pregiudiziali sollevate dalla Corte costituzionale, cominciando dalla prima.
Con la prima questione, la Corte costituzionale sostiene che l’obbligo di disapplicare gli artt. 160 e 161 c.p. imposto dalla sentenza Taricco per reati costituenti a) “frodi gravi”, quando la prescrizione di tali reati si verifica, e b) “in un numero considerevole di casi”, non risponde al principio di legalità in materia penale. Le predette condizioni sarebbero eccessivamente vaghe e consegnerebbero al giudice un potere di discrezionalità troppo ampio per gli standard ammessi nei sistemi di civil law come quello italiano.[22] La Corte costituzionale pertanto chiede alla Corte di giustizia se davvero l’art. 325 TFUE imponga di non applicare gli artt. 160 e 161 c.p. “anche quando tale omessa applicazione sia priva di una base legale sufficientemente determinata”.[23]
Come vari commentatori, tra cui chi scrive,[24] hanno osservato, in realtà, il punto della sufficiente precisione delle condizioni in cui il giudice dovrebbe disapplicare gli artt. 160 e 161 c.p. non era stato affrontato esplicitamente nella sentenza Taricco. Pertanto la questione poteva dirsi ancora aperta per un ulteriore approfondimento da parte della Corte di giustizia. Un eventuale ridimensionamento della portata della sentenza Taricco, in accoglimento delle riserve mosse dalla Corte costituzionale, non avrebbe dunque comportato una vera e propria smentita del precedente ma piuttosto un suo completamento. Una risposta alla prima questione pregiudiziale nel senso (negativo) auspicato dalla Corte costituzionale, poteva pertanto rappresentare per la Corte di giustizia un commodus discessus, capace di risolvere il problema senza “lasciare sul campo né morti né feriti”.
Invece l’AG Bot tratta la prima questione pregiudiziale molto rapidamente.
Egli ribadisce che i criteri indicati dalla sentenza Taricco (frode grave, prescrizione dei reati in un numero considerevole di casi) “sono, come rilevato dalla Corte costituzionale, vaghi e generici”.[25] Soprattutto il secondo di questi “può sembrare, è vero, diretto a introdurre un elemento di soggettività nella valutazione richiesta” e “può costituire effettivamente un’operazione delicata per il giudice nazionale investito della controversia”.[26] E infatti il criterio della numerosità non viene più ripreso nelle conclusioni, quasi che l’Avvocato generale ne proponga implicitamente l’abbandono.
Invece circa il primo criterio, quello della gravità della frode, l’Avvocato generale afferma che l’obbligo di valutare se effettivamente sia soddisfatto il criterio in parola deve essere “fondato esclusivamente sulla natura del reato” e che spetta “al legislatore dell’Unione definire detta natura”, richiamando poi di nuovo la proposta di direttiva PIF.[27] Tale proposta offrirebbe una risposta alla genericità del criterio, in quanto definisce “la nozione di reati gravi lesivi degli interessi finanziari dell’Unione – reati che includono anche le frodi in materia di IVA – nel senso che essa comprende tutti i reati aventi un collegamento con il territorio di due o più Stati membri e che comportano un danno di importo totale superiore alla soglia di EUR 10 milioni, soglia soggetta a una clausola di revisione”.[28]
Da tali passaggi, sembrerebbe di capire che, secondo l’Avvocato generale, il criterio della “numerosità” dei casi di prescrizione dovrebbe cadere del tutto, perché troppo “soggettivo”, mentre quello della “gravità” della frode dovrebbe essere definito dal legislatore dell’Unione nella futura direttiva PIF.
Occorre tuttavia ribadire che tali indicazioni non sono riprese in alcun punto delle conclusioni finali. Pertanto non è affatto chiaro quale sia il significato che l’Avvocato generale attribuisce ad esse. In particolare non è chiaro come il giudice dovrebbe comportarsi nelle more di un intervento definitorio da parte del legislatore dell’Unione. Dovrebbe omettere di disapplicare gli artt. 160 e 161 c.p., contraddicendo la sentenza Taricco, la cui validità è stata invece ribadita nel par. 108 e nel par. 1 delle conclusioni finali e rafforzata nel par. 109 e nel par. 2 delle stesse? Oppure dovrebbe disapplicare gli artt. 160 e 161 c.p., nonostante l’affermata insufficiente precisione dei criteri indicati dalla sentenza Taricco?
Come è evidente, qualora il pensiero dell’Avvocato generale fosse nel primo senso, ne discenderebbe che lo stesso art. 325 TFUE non costituirebbe, in realtà, una norma capace di essere direttamente applicata dal giudice nazionale. Per applicare l’art. 325 TFUE sarebbe richiesto l’intervento del legislatore dell’Unione o, almeno, quello del legislatore nazionale, in questo caso italiano, per precisare i criteri indicati, in maniera troppo generica, dalla sentenza Taricco. Tale conclusione rivelerebbe però che in realtà la Corte di giustizia sarebbe incorsa in errore nella sentenza, considerando che il giudice italiano potesse disapplicare direttamente gli artt. 160 e 161 c.p. in favore dell’art. 325 TFUE.
Nel caso invece in cui il pensiero dell’Avvocato generale fosse nel secondo senso e cioè che il giudice, nonostante l’imprecisione dei criteri di applicazione, sarebbe tenuto sin d’ora a disapplicare gli artt. 160 e 161 c.p., le considerazioni appena riprodotte costituirebbero nient’altro che un auspicio per il futuro.
La brevità degli sviluppi consacrati a tale pur centrale questione, tenendo conto che nessuno dei punti delle conclusioni finali li riprende, porta a privilegiare quest’ultima interpretazione.
Non è però escluso, ed è anzi auspicabile, che la Corte di giustizia voglia approfondire gli sviluppi accennati dall’Avvocato generale e possa trarne spunto per attenuare il rigore della sentenza Taricco nel senso indicato dalla Corte costituzionale.
V. Potrebbe l’art. 53 della Carta dei diritti fondamentali permettere di continuare ad applicare in Italia gli artt. 160 e 161 c.p. in quanto più favorevoli del livello di tutela garantito dall’art. 49 della stessa Carta e dall’art. 7 CEDU?
Con la seconda questione pregiudiziale, la Corte costituzionale pone il problema della possibilità di interpretare l’art. 325 TFUE in maniera da consentire ad uno Stato membro, la cui Costituzione preveda un livello di tutela del principio di legalità in materia penale superiore rispetto a quello garantito dall’art. 49 della Carta e dall’art. 7 CEDU, di attenersi al livello di tutela superiore.
Il problema riguarda più specificamente la disapplicazione degli artt. 160 e 161 c.p. imposta dalla sentenza Taricco e il conseguente allungamento dei termini di prescrizione anche per reati commessi prima della sentenza stessa i quali, in applicazione dei citati artt. 160 e 161, si sarebbero estinti per prescrizione.
Come è noto, secondo l’interpretazione dell’art. 25, comma 2, della Costituzione il principio di legalità in materia penale copre anche la disciplina della prescrizione, compreso l’aspetto dell’interruzione. Di conseguenza una modifica in senso peggiorativo della disciplina non potrebbe essere fatta valere retroattivamente. Secondo l’interpretazione dell’art. 49 della Carta e del corrispondente art. 7 CEDU, invece, la disciplina della prescrizione non rientrerebbe nel principio di legalità e, se modificata in senso peggiorativo, potrebbe perciò essere applicata anche a processi pendenti al momento della modifica.
La portata restrittiva dell’art. 49 della Carta e dell’art. 7 CEDU è affermata con chiarezza dalla sentenza Taricco, con richiami alla giurisprudenza della Corte europea dei diritti umai, sulla quale si tornerà (paragrafo VII). Nella sentenza stessa la Corte di giustizia non si pone però il problema di stabilire se il livello più elevato di protezione garantito dalla Costituzione dello Stato membro in questione, che comprenda anche il regime della prescrizione, possa essere fatto valere per evitare l’applicazione, in quello stesso Stato, del livello inferiore assicurato dall’art. 49 della Carta. In particolare nella sentenza Taricco non è affatto menzionato l’art. 53 della Carta, in base al quale “nessuna disposizione della presente Carta deve essere interpretata come limitativa o lesiva dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali riconosciuto, nel rispettivo ambito di applicazione, [...] dalle costituzioni degli Stati membri”.
Bene ha fatto pertanto la Corte costituzionale a porre il problema. Si trattava di chiarire il significato dell’art. 53 e i suoi limiti.
L’AG Bot comincia la sua analisi col ribadire che l’art. 49 della Carta e il corrispondente art. 7 CEDU non si opporrebbero all’applicazione retroattiva della sentenza Taricco.[29] Certo, rispetto alla sentenza Taricco, l’analisi della giurisprudenza della Corte europea dei diritti umani sull’art. 7 CEDU è più ricca degli scarni richiami contenuti nella sentenza, focalizzati sulla pronuncia Cöeme c. Belgio.[30] Tuttavia, a parte le riserve sulla comparabilità dei precedenti citati con il caso Taricco su cui si tornerà (paragrafo VII), si tratta di una mera ripetizione della posizione della Corte, posizione che, come si vede, resta circoscritta al solo ordinamento dell’Unione.[31]
Più innovativo appare il ragionamento dell’Avvocato generale quando si pone nella prospettiva dell’art. 53 della Carta.
Delle numerose e articolate considerazioni svolte in proposito la più “intrigante” sembra essere quella secondo cui “la specificità del diritto dell’Unione implica che il livello di protezione derivante dall’interpretazione di una Costituzione nazionale non possa essere automaticamente trasposto a livello di Unione e non sia opponibile in sede di applicazione del diritto dell’Unione” (corsivo aggiunto).[32]
In effetti il passaggio è equivoco: potrebbe essere interpretato tanto nel senso che un’applicazione eventuale del livello superiore è possibile anche se non “automaticamente”, quanto nel senso opposto, cioè che il livello nazionale superiore di protezione non può mai prevalere sul livello inferiore definito dal diritto dell’Unione. Considerato che la frase è svolta al negativo, la seconda interpretazione sembra più plausibile.
Che l’intenzione dell’Avvocato generale sia nel secondo senso è comunque confermato dal seguito della trattazione del punto.
L’Avvocato generale ammette che il caso Taricco si distingue da quello Melloni. Riconosce che nel caso Melloni relativo, come è noto, alla decisione quadro sul mandato d’arresto europeo, “il livello di protezione è stato infatti fissato in modo da rispondere agli obiettivi dell’azione dell’Unione considerata” ed è quindi “l’espressione di un equilibrio tra la necessità di garantire l’efficacia dell’azione dell’Unione e quella di proteggere adeguatamente i diritti fondamentali”. In situazioni del genere, secondo l’AG Bot, gli Stati membri non possono pertanto pretendere “di mantenere un livello di protezione più elevato”.[33]
In casi come quello dell’art. 325 TFUE, oggetto della sentenza Taricco, invece, in cui non può dirsi che sia stato definito un livello di protezione uniforme, secondo lo stesso Avvocato generale “gli Stati membri beneficiano di un margine di discrezionalità più ampio” e possono accordare “nell’ambito di applicazione del diritto dell’Unione, il livello di protezione dei diritti fondamentali che essi intendono garantire nell’ambito dell’ordinamento nazionale”. Ciò però soltanto a condizione che il livello di protezione nazionale possa conciliarsi “con la corretta attuazione del diritto dell’Unione” e non leda “altri diritti fondamentali protetti in forza del diritto dell’Unione”.[34]
L’AG Bot ritiene che questa condizione non sarebbe rispettata se si consentisse l’applicazione del livello di protezione previsto dall’ordinamento italiano in materia di prescrizione, livello che è superiore, come si è detto, rispetto a quello garantito dal diritto dell’Unione e, in particolare, dall’art. 49 della Carta. L’applicazione del livello italiano infatti non garantirebbe “il primato e l’effettività del diritto dell’Unione”.[35]
Delle tre ragioni indicate dall’Avvocato generale a sostegno di tale conclusione, la seconda e la terza riprendono brevissimamente, senza alcuno sviluppo ulteriore, quanto già affermato dalla Corte nella sentenza Taricco: l’applicazione del livello italiano di tutela del principio di legalità, superiore a quello garantito dall’art. 49 della Carta, comprometterebbe “il primato del diritto dell’Unione” e la sua effettività.[36] Non è perciò necessario in questa sede alcun approfondimento.
Merita invece qualche riflessione la prima ragione: l’Avvocato generale sembra voler sostenere che l’applicazione della normativa italiana pregiudicherebbe “il principio del termine ragionevole stabilito dall’art. 47, paragrafo 2, della Carta”, principio che costituirebbe “l’archetipo della norma armonizzata, che può essere fatto valere direttamente”.[37]
Come si è visto, non è la prima volta che, nelle conclusioni in esame, viene evocato il principio del termine ragionevole di cui all’art. 47, par. 2, della Carta (v. supra, paragrafo II). Come nella prima occasione, anche ora l’AG Bot sembra utilizzare il principio come norma invocabile direttamente contro l’imputato da parte, non di un altro individuo, ma dell’autorità penale o addirittura della stessa Unione, i cui interessi finanziari sarebbero messi a rischio dall’applicazione di un regime di prescrizione più favorevole dello standard garantito dall’art. 49 della Carta.
Orbene, anche ad ammettere una visione “rovesciata” del diritto ad un termine ragionevole, sarebbe paradossale che ad invocarlo possa essere il giudice penale o addirittura l’Unione ai danni di un individuo, con l‘effetto di privarlo del diritto di beneficiare di una normativa a lui più favorevole che fosse in vigore al momento della commissione del reato e, così, pregiudicare nei suoi confronti il principio di legalità in materia penale.
In conclusione, l’AG Bot respinge la tesi evocata dalla Corte costituzionale nella seconda questione pregiudiziale e sostiene che “l’articolo 53 della Carta non consenta all’autorità giudiziaria di uno Stato membro di opporsi all’esecuzione dell’obbligo stabilito dalla Corte di giustizia nella sentenza Taricco e a. con la motivazione che tale obbligo non rispetterebbe il livello di tutela più elevato dei diritti fondamentali garantito dalla Costituzione di tale Stato”.[38]
C’è a questo punto da domandarsi, se si accogliesse la proposta dell’Avvocato generale, quale spazio resterebbe per l’art. 53 della Carta. In quali casi il livello di protezione nazionale più elevato di quello definito dal diritto dell’Unione potrebbe prevalere su quest’ultimo? In quali casi potrebbe dirsi che, pur in presenza di un settore non “armonizzato”, la prevalenza del livello nazionale di protezione su quello più basso garantito dall’Unione non pregiudichi, non soltanto l’effettività del diritto dell’Unione, ma soprattutto il principio del primato? Se non nel caso dell’art. 325 TFUE, norma che si limita a prescrivere un risultato che gli Stati membri devono raggiungere, senza che vengano indicati mezzi e soluzioni precise, in quali altri casi l’art. 53 della Carta potrebbe essere fatto valere?
È da temere che, se la Corte di giustizia seguisse sul punto l’Avvocato generale, l’art. 53 della Carta resterebbe in pratica “lettera morta”. E questo potrebbe giustificare reazioni negative negli ambienti degli Stati membri.
VI. Potrebbe il rispetto della “identità nazionale” degli Stati membri (art. 4, par. 2, TUE) portare allo stesso risultato?
Con la terza e ultima questione pregiudiziale, la Corte costituzionale, avendo definito il principio di legalità (art. 25, comma 2, della Costituzione) come “principio supremo dell’ordinamento costituzionale”, si domanda se, a fronte di tale qualificazione, la sentenza Taricco possa essere interpretata nel senso di non imporre la disapplicazione degli artt. 160 e 161 c.p., alla luce del rispetto della “identità nazionale” degli Stati membri previsto dall’art. 4, par. 2, TUE.[39]
La Corte costituzionale parte dal principio che sia solo la Corte stessa a poter definire se un determinato principio sia qualificabile come “principio supremo dell’ordinamento nazionale” e se rientri nell’identità nazionale di cui parla l’art. 4, par. 2, TUE.[40]
L’AG Bot non condivide questo approccio e contesta che la sentenza Taricco, nell’imporre ai giudici di disapplicare il regime di prescrizione vigente al momento della commissione del reato, possa essere tacciata di violare l’identità nazionale.[41]
In particolare, richiama alcuni precedenti della Corte costituzionale nonché le osservazioni del Governo italiano nella causa Gauweiler, che accoglierebbero una visione molto ristretta di ciò che potrebbe essere considerato come un “principio fondamentale”.[42]
Sostiene infine che “l’articolo 4, paragrafo 2, TUE non consenta all’autorità giudiziaria di uno Stato membro di opporsi all’esecuzione dell’obbligo stabilito dalla Corte di giustizia nella sentenza Taricco e a. con la motivazione che l’applicazione immediata a un procedimento in corso di un termine di prescrizione più lungo di quello previsto dalla legge in vigore al momento della commissione del reato sarebbe tale da compromettere l’identità nazionale di tale Stato”.[43]
La risposta dell’AG Bot è quindi molto netta. Non tocca agli Stati membri o alle proprie Corti costituzionali decidere quali siano i principi fondamentali del rispettivo ordinamento costituzionale e in quali casi uno Stato membro possa invocare la violazione della propria identità nazionale ai sensi dell’art. 4, par. 2, TUE. Nel caso specifico, la sentenza Taricco, con la sua imposizione di disapplicare a casi pendenti gli artt. 160 e 161 c.p., non può dirsi che violi l’identità nazionale di uno Stato membro.
La dura risposta dell’AG Bot, in realtà, era inevitabile. Come chi scrive ha già avuto modo di chiarire,[44] la terza questione pregiudiziale della Corte costituzionale era la più “forte”, perché richiedeva una sorta di accettazione da parte della Corte di giustizia della nota teoria dei controlimiti. Orbene non era immaginabile che la Corte di giustizia potesse aprire in questa direzione.
Resta che una risposta “dura” come quella proposta dall’AG Bot verrebbe vista, con tutta probabilità, come una grave interferenza su aspetti (principi fondamentali dell’ordinamento costituzionale; identità nazionale) che, nella prospettiva degli Stati membri, non possono non rientrare nel domaine reservé di ciascuno Stato e, viceversa, non possono dipendere da valutazioni affidate alla Corte di giustizia.
Piuttosto c’è da domandarsi se la Corte di giustizia non possa “aggirare” il problema ricorrendo al noto strumento dell’obbligo di interpretazione conforme del diritto interno rispetto al diritto dell’Unione. Come si sa, l’obbligo impone ai giudici nazionali di utilizzare l’intero ordinamento nazionale per fare in modo che il diritto nazionale venga interpretato in modo da rispondere alle esigenze del diritto dell’Unione.[45]
In questa ottica, una risposta da parte della Corte di giustizia nel senso di spingere i giudici nazionali ad individuare i “principi fondamentali dell’ordinamento costituzionale” o gli elementi che costituirebbero la “identità nazionale” secondo un’interpretazione restrittiva, che tenga conto delle esigenze del diritto dell’Unione nel suo complesso, potrebbe risultare più accettabile. Sarebbero gli stessi giudici nazionali a stabilire quali siano i “principi fondamentali dell’ordinamento costituzionale” e la “identità nazionale” ma sarebbero chiamati a svolgere questo ruolo ermeneutico in una visione non puramente nazionalistica ma europea.
In questa diversa prospettiva, sarebbe opportuno che la Corte di giustizia, piuttosto che imporre soluzioni unilaterali, cercasse di convincere la Corte costituzionale a ridimensionare la scelta di includere, tra i principi supremi e gli elementi dell’identità nazionale, il principio della legalità penale anche nella sua (estrema?) dimensione di protezione contro l’applicazione di termini di prescrizione più lunghi di quelli in vigore al momento del compimento del reato.
VII. Davvero l’art. 7 CEDU permette che i termini di prescrizione siano prolungati dopo la commissione del reato?
Ci sia consentito, a questo punto, tornare brevemente sull’art. 7 CEDU e sulla giurisprudenza della Corte europea che viene abbondantemente citata dall’AG Bot.
Non c’è dubbio che tanto la sentenza Taricco, quanto le conclusioni dell’AG Bot, facciano molto affidamento su questa giurisprudenza. Secondo l’art. 52, par. 3, della Carta, infatti, se vi è corrispondenza tra un diritto protetto dalla Carta e un diritto protetto dalla Convenzione europea “il significato e la portata” del primo “sono uguali a quelli conferiti dalla suddetta convenzione”. L’art. 49 della Carta corrisponde all’art. 7 CEDU.[46] Ne consegue che il significato e la portata dell’art. 7, come risulta dalla giurisprudenza della Corte europea, devono essere estesi all’art. 49.
D’altronde, non può negarsi che, da un’analisi complessiva di tale giurisprudenza, risulta che la Corte europea, a partire dalla sentenza Cöeme c. Belgio,[47] non ritiene che l’art. 7 impedisca ad uno Stato contraente di applicare immediatamente una legge che definisca in senso peggiorativo i termini di prescrizione in materia penale. La Corte infatti considera che l’art. 7 impedisce l’applicazione retroattiva delle sole disposizioni legislative che definiscono il reato e la pena applicabile. Secondo la Corte, le norme sulla prescrizione hanno carattere procedurale perché non modificano questi aspetti e non rientrano nel campo d’applicazione dell’art. 7.
Nondimeno occorre osservare che non tutti i precedenti della Corte europea sul punto si riferiscono a casi e circostanze paragonabili al caso, molto particolare, oggetto della sentenza Taricco.
Il precedente più in termini è costituito proprio dalla sentenza Cöeme c. Belgio. Ad essa infatti si riferiscono tanto la sentenza Taricco, quanto la Corte costituzionale e infine l’AG Bot.
Il caso esaminato dalla Corte EDU presenta effettivamente numerose analogie con il caso Taricco. Nel caso Cöeme c. Belgio, si era verificato, in base all’art. 25 della legge del 24 dicembre 1993, che modificava l’art. 21 della legge del 17 aprile 1878, un prolungamento del termine di prescrizione per i “délits” da tre a cinque anni. Il nuovo termine era applicabile ai processi in corso e, nel caso di specie, ha portato alla sentenza di condanna degli imputati, il cui reato sarebbe stato altrimenti prescritto in forza del precedente termine. Il precedente dunque si attaglia, per l’aspetto della “retroattività”, al caso Taricco.
I due casi tuttavia differiscono molto sotto l’aspetto della “precisione” dei criteri di applicazione (supra, paragrafo IV). Nel caso belga, i criteri di applicazione erano definiti con precisione per legge, indicandosi che il nuovo termine, come anche il più antico, si applicavano ai “délits”, senza ulteriore distinzione. Nel caso Taricco, invece, l’applicazione di un nuovo regime di prescrizione, per effetto della disapplicazione degli artt. 160 e 161 c.p., avviene, per la stessa indicazione contenuta nella sentenza della Corte di giustizia, solo in presenza di “frodi gravi” e quando la prescrizione di tali reati si verifica “in un numero considerevole di casi”.
Come lo stesso AG Bot ammette, tali due criteri, soprattutto il secondo, sono troppo generici per essere conformi al principio di legalità e per potere essere applicati direttamente dai giudici (supra, paragrafo IV). C’è perciò da domandarsi se, di fronte a un regime di prescrizione così impreciso come quello risultante dalla sentenza Taricco, la Corte europea confermerebbe il precedente Cöeme c. Belgio. È bene osservare che proprio in quel precedente la Corte aveva sottolineato che, ai sensi dell’art. 7 CEDU, “la loi doit définir clairement les infractions et les peines qui les répriment” (punto 145).[48]
Non sembrano invece pertinenti le ulteriori sentenze della Corte europea citate dall’AG Bot.
In particolare la sentenza Cestaro c. Italia,[49] lungamente citata per dimostrare le carenze della legislazione italiana in materia di prescrizione,[50] ha ad oggetto il caso delle torture inflitte dal personale delle forze dell’ordine a persone inermi, in occasione del G7 di Genova. Alcuni dei reati risultavano prescritti e i responsabili non sono mai stati condannati.
La Corte europea, su ricorso di una persona che era stata vittima delle violenze, riconosce la violazione dell’art. 3 CEDU da parte dell’Italia (anche) per il profilo della “prescrizione”.[51] Le differenze rispetto al caso Taricco sono però molto marcate. Completamente diversi sono i reati commessi (tortura, da un lato; frodi carosello in materia di IVA, dall’altro), la disposizione convenzionale invocata (art. 3, da un lato; art. 7, dall’altro), il soggetto che invoca la violazione (le vittime di tortura, da un lato; i giudici e, indirettamente, l’Unione, dall’altro).
Peraltro nel caso Cestaro c. Italia, come anche nel caso oggetto della sentenza Alikay c. Italia, anch’essa citata dall’AG Bot e relativa ad un omicidio caduto in prescrizione, non risultava che la prescrizione dei reati fosse dovuta alla disciplina dell’interruzione contenuta negli artt. 160 e 161 c.p.[52]
Le citazioni della sentenza Cestaro c. Italia a sostegno della sentenza Taricco appaiono pertanto fuori contesto.
Parimenti fuori contesto appare la sentenza sul caso Previti c. Italia.[53] Come lo stesso Avvocato generale ammette,[54] in quel caso ad essere contestata dal ricorrente era la stessa legge ex-Cirielli oggetto della sentenza Taricco, non perché tale legge aveva introdotto un regime di prescrizione più favorevole all’imputato, ma perché, nel caso di specie, trattandosi di un caso pendente in Corte di cassazione, in base all’art. 10, comma 3, della stessa legge, il nuovo regime non si applicava. Il ricorrente ricordava che, secondo la sentenza nel caso Scoppola c. Italia,[55] l’art. 7 CEDU comprende anche il principio dell’applicazione della legge successiva più mite[56] e sosteneva che tale principio dovesse applicarsi anche alle norme legislative che riducevano il termine di prescrizione, tesi poi respinta dalla Corte europea.[57]
L’AG Bot non cita invece la sentenza sul caso Yukos c. Russia,[58] benché essa venga evocata sia dalla Corte di giustizia nella sentenza Taricco che dalla Corte costituzionale nell’ordinanza n. 24/2017.[59] In questa sentenza, la Corte europea afferma che un cambiamento in senso peggiorativo delle regole per il calcolo del termine legale della prescrizione in materia penale, cambiamento risultante da una sentenza della Corte costituzionale russa, se applicato a fatti avvenuti precedentemente, rende il comportamento dello Stato illegittimo ai sensi dell’art. 1 del Protocollo n. 1 alla Convenzione.[60]
Il precedente Yukos c. Russia sembra dunque molto vicino al caso Taricco e avrebbe meritato maggiore approfondimento. Da esso sembra risultare che la giurisprudenza Cöeme c. Belgio non è del tutto univoca e ammette delle deviazioni proprio in casi in cui il cambiamento in senso peggiorativo del regime di prescrizione sia il risultato di un intervento giurisprudenziale, proprio come nel caso Taricco.
VIII. Conclusioni: l’Avvocato generale risponde realmente alle questioni pregiudiziali della Corte costituzionale?
Come è noto, la Corte di giustizia gode del potere di riformulare, con notevole discrezionalità, le questioni pregiudiziali poste dalla giudice nazionale a quo nonché di accorparle o di modificarne l’ordine. Nondimeno, nel caso di rinvio pregiudiziale operato da una Corte costituzionale, soprattutto se le questioni sollevate appaiono molto delicate, sarebbe bene che la Corte di giustizia usasse tale potere con particolare cautela.
Non si tratta soltanto di formulare le singole risposte, riprendendo testualmente nel dispositivo le questioni pregiudiziali. Occorre invece sforzarsi di porsi nella posizione della Corte costituzionale e rispondere nei termini reali in cui le questioni sono state sollevate. In caso contrario, il rischio che si possa aprire un conflitto tra Corti diventa grave.
Venendo alle risposte che l’AG Bot propone di dare alle questioni della Corte costituzionale nel caso in esame, va messo in evidenza che, come si è già detto, manca una vera e propria risposta alla prima questione (supra, paragrafo III).
Nelle conclusioni finali, non vi è alcun accenno al problema della eccessiva genericità e imprecisione dei criteri che farebbero scattare l’obbligo di disapplicare gli artt. 160 e 161 c.p. in base alla sentenza Taricco. Il problema è bensì affrontato nel corso delle conclusioni ma senza giungere ad alcuna soluzione definitiva.
Quanto alla risposta alla seconda questione, l’Avvocato generale fornisce un’analisi molto articolata della giurisprudenza della Corte europea. Tuttavia, a prescindere dal se le sentenze citate siano o meno pertinenti, sembra sfuggire che la Corte costituzionale non chiede di riesaminare se l’art. 49 della Carta o l’art. 7 CEDU permettano che la sentenza Taricco sia applicata retroattivamente. Essa vuole sapere se il livello superiore di protezione previsto dall’ordinamento costituzionale italiano, che esclude una tale applicazione retroattiva, possa essere rispettato grazie all’art. 53 della Carta. È dunque in gioco l’interpretazione di una norma della Carta tra le più problematiche, che non può essere risolta invocando il principio del primato e quello dell’effettività almeno in casi in cui non sia assolutamente necessario.
Infine, la risposta alla terza e ultima questione, laddove l’Avvocato generale sembra contestare la fondatezza di quanto assume la Corte costituzionale sulla portata e l’importanza dell’art. 25, comma 2, della Costituzione, suona non soltanto provocatoria, ma comunque superflua. Ciò soprattutto se si vuole evitare il rischio che la teoria dei controlimiti entri in gioco.
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European Papers, Vol. 2, 2017, No 3, European Forum, Insight of 7 September 2017, pp. 987-1004
ISSN 2499-8249 - doi: 10.15166/2499-8249/159
* Professore ordinario di diritto dell’Unione europea, Università di Roma "Tor Vergata", luigi.daniele@uniroma2.it.
[1] Corte di giustizia, sentenza dell’8 settembre 2015, causa C-105/14, Taricco et al. [GS].
[2] Corte costituzionale: ordinanza del 13 febbraio 2008, n. 103; ordinanza del 3 luglio 2013, n. 207.
[3] Corte di giustizia, sentenza del 16 giugno 2015, causa C-62/14, Gauweiler et al. [GS].
[4] Conclusioni dell’AG Bot presentate il 18 luglio 2017, causa C-42/17, M.A.S. e M.B.
[5] Conclusioni dell’AG Bot, M.A.S. e M.B., cit., par. 53.
[6] Proposta della Commissione di direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio relativa alla lotta contro la frode che lede gli interessi finanziari dell’Unione mediante il diritto penale, COM(2012) 363 final.
[7] Corte di giustizia, sentenza del 26 febbraio 2013, causa C-399/11, Melloni [GS].
[8] Per la descrizione della pratica delle frodi “carosello”, si vedano le conclusioni dell’AG Kokott presentate il 30 aprile 2015, causa C-105/14, Taricco et al., par. 2 et seq.
[9] Per riferimenti alla giurisprudenza interna post-Taricco, v. C. Cupelli, Il caso Taricco e il controlimite della riserva di legge in materia penale, in Giurisprudenza costituzionale, 2016, p. 422 et seq.
[10] Corte di appello di Milano, ordinanza del 18 settembre 2015, n. 339; Corte di cassazione, ordinanza del 30 marzo 2016, n. 28346.
[11] Conclusioni dell’AG Bot, M.A.S. e M.B., cit., par. 72-109, 188 (in particolare n. 1).
[12] Ivi, par. 79.
[13] Ivi, par. 109, 188 (in particolare n. 2).
[14] Ivi, par. 68, 70-71, 80, 111.
[15] Ivi, par. 116-117.
[16] Ivi, par. 77-79, 87, 91.
[17] Ivi, par. 52-64. Corre l’obbligo di precisare che le critiche nei confronti del regime italiano vigente della prescrizione richiamate nelle “Osservazioni preliminari” hanno portata generale e non riguardano in particolare i reati che pregiudicano gli interessi finanziari dell’Unione, ma piuttosto i reati di corruzione (ivi, par. 55-57, 60-61).
[18] Ivi, par. 88.
[19] Ivi, par. 100.
[20] V. Corte di giustizia, sentenza del 13 settembre 2005, causa C-176/03, Commissione delle Comunità europee c. Consiglio dell’Unione europea [GS], par. 47-48. V., ora, l’art. 83 TFUE. Sulla portata della competenza sulla cooperazione giudiziaria di materia penale v. L. Daniele, Diritto del mercato unico europeo e dello spazio di libertà, sicurezza e giustizia, Giuffré: Milano, 2016, p. 421 et seq.
[21] Conclusioni dell’AG Bot, M.A.S. e M.B., cit., par. 95-97.
[22] Corte costituzionale, ordinanza 24/2017, par. 5.
[23] Ivi, dispositivo n. 1.
[24] L. Daniele, La sentenza “Taricco” torna davanti alla Corte di giustizia UE: come decideranno i giudici europei?, in Eurojus.it, 10 aprile 2017, rivista.eurojus.it, par. 3.
[25] Conclusioni dell’AG Bot, M.A.S. e M.B., cit., par 111.
[26] Ivi, par. 112 e 114.
[27] Ivi, par. 116.
[28] Ivi, par. 117. In realtà il testo della proposta non fa riferimento alla nozione di frode grave, mentre definisce come “reati minori” quelli “ da cui derivino danni inferiori a 10 000 EUR e vantaggi inferiori a 10 000 EUR, e che non presentino aspetti di particolare gravità”. In casi del genere “gli Stati membri possono prevedere sanzioni di natura diversa da quella penale” (art. 7, par. 2). L’Avvocato generale sembra trarre la soglia di 10 milioni per definire le frodi gravi dai “negoziati finalizzati all’adozione della proposta di direttiva PIF” (conclusioni dell’AG Bot, M.A.S. e M.B., cit., par. 117) e non dunque da un dato normativo preciso, nemmeno a livello di proposta.
[29] Conclusioni dell’AG Bot, M.A.S. e M.B., cit., par. 126-127.
[30] Taricco et al. [GS], cit., par. 57.
[31] Conclusioni dell’AG Bot, M.A.S. e M.B., cit., par. 141, 188 (in particolare n. 3).
[32] Ivi, par. 147-151, 153.
[33] Ivi, par. 160.
[34] Ivi, par. 161.
[35] Ivi, par. 163.
[36] Ivi, par. 166-167.
[37] Ivi, par. 165.
[38] Ivi, par. 168, 188 (in particolare n. 3).
[39] Corte costituzionale, ordinanza 24/2017, par. 2-3.
[40] Ivi, par. 6.
[41] Conclusioni dell’AG Bot, M.A.S. e M.B., cit., par. 186.
[42] Ivi, par. 183-185.
[43] Ivi, par. 187, 188 (in particolare n. 4).
[44] L. Daniele, La sentenza “Taricco” torna davanti alla Corte di giustizia UE, cit., par. 5.
[45] Corte di giustizia, sentenza del 5 ottobre 2004, cause riunite da C-397/01 a C-403/01, Pfeiffer et al. [GS], par. 118-119.
[46] In questo senso v. Parlamento europeo, Consiglio dell’Unione europea, Commissione europea, Spiegazioni relative alla carta dei diritti fondamentali, 14 dicembre 2007, 2007/C 303/02, in particolare relative all’art. 49 della Carta.
[47] Ci si riferisce a Corte europea dei diritti umani, sentenza del 22 giugno 2000, n. 32492/96, 32547/96, 32548/96, 33209/96 e 33210/96, Cöeme et al. c. Belgio.
[48] Cöeme et al. c. Belgio, cit., par. 145.
[49] Corte europea dei diritti umani, sentenza del 7 aprile 2015, n. 6884/11, Cestaro c. Italia.
[50] Conclusioni dell’AG Bot, M.A.S. e M.B., cit., par. 58 et seq.
[51] Cestaro c. Italia, cit., par. 208.
[52] Corte europea dei diritti umani, sentenza del 29 marzo 2011, n. 47357/08, Alikay et al. c. Italia. Caso citato nelle conclusioni dell’AG Bot, M.A.S. e M.B., cit., par. 58.
[53] Corte europea dei diritti umani, sentenza del 12 febbraio 2013, n. 1845/08, Cesare Previti c. Italia.
[54] Conclusioni dell’AG Bot, M.A.S. e M.B., cit., par. 133-140.
[55] Corte europea dei diritti umani, sentenza del 17 settembre 2009, n. 10249/03, Scoppola c. Italia (2) [GS], par. 109.
[56] V. ora la seconda frase dell’art. 49, par. 1, della Carta, che contempla espressamente il principio dell’applicazione della legge successiva che prevede “una pena più lieve”.
[57] Previti c. Italia, cit., par. 80-81. L’Avvocato generale cita anche Corte europea dei diritti umani, sentenza del 22 settembre 2015, n. 55959/14, Cristian Borcea c. Romania, par. 128. Anche questa sentenza riguarda un caso alquanto diverso rispetto al caso Taricco. Si trattava di una successione di leggi penali, che comportava anche un allungamento del termine di prescrizione. Il ricorrente contestava la condanna subita, invocando l’art. 7 CEDU, per la mancanza di chiarezza delle norme incriminatrici, i divergenti orientamenti giurisprudenziali e l’assenza di norme transitorie. La Corte, richiamando il precedente Cöeme c. Belgio, escludeva che potesse parlarsi di violazione dell’art. 7 (par. 64 et seq.)
[58] Corte europea dei diritti umani, sentenza del 17 settembre 2011, n. 14902/04, Oao Neftyanaya Kompaniya Yukos c. Russia [GS].
[59] Taricco et al., cit, par. 57; Corte costituzionale, ordinanza 24/2017, par. 5.
[60] Kompaniya Yukos c. Russia [GS], cit., par. 574.