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Abstract: In its judgement of 28 July 2016 (case C-41/11, Inter-Environnement Wallonie e Terre wallonne), the CJEU confirmed its settled case law concerning the interpretation of Art. 267, para. 3, TFEU. Indeed, since CILFIT, the CJEU has allowed national courts of last instance to solve by themselves interpretative problems in the presence of an acte clair. In this Insight the author discusses the existence of external factors with respect to Art. 267, which might make more stringent the obligation to submit interpretative questions to the CJEU.
Keywords: CJEU – Art. 267 TFEU – acte clair – Köbler – Member State liability – Art. 6 ECHR.
I. La questione al vaglio della Corte di giustizia
La sentenza della Corte di giustizia nel caso Association France Nature Environnement[1] costituisce l’occasione per fare il punto sul perimetro applicativo dell’art. 267, par. 3, TFUE.
La Corte è tornata sull’argomento a seguito di un rinvio pregiudiziale riguardante una vicenda di diritto ambientale, cui si possono dedicare in questa sede soltanto alcuni cenni. Il procedimento principale verteva su un ricorso promosso da un’associazione ambientalista, finalizzato all’annullamento di un decreto attuativo degli artt. 232 e 233 della legge francese n. 2010-788, a sua volta frutto del recepimento della direttiva (CE) 2001/42/CE del Parlamento europeo e del Consiglio del 27 giugno 2001 concernente la valutazione degli effetti di determinati piani e programmi sull’ambiente. Ad avviso del ricorrente, tale decreto si poneva in contrasto con la normativa UE, nella parte in cui affidava alla stessa amministrazione sia la competenza a elaborare e approvare un certo numero di piani e di programmi, sia la competenza consultiva ambientale per i medesimi. Di contro, la direttiva richiederebbe che quest’ultima competenza fosse affidata a un ufficio munito della dovuta autonomia.
Il Conseil d’État, pur condividendo tali motivi di doglianza, ha tenuto in massima considerazione le drastiche conseguenze che una declaratoria di annullamento avrebbe ingenerato, con particolare riferimento all’invalidazione, in via derivata, dei piani e programmi medio tempore adottati proprio sulla base del decreto impugnato. Per tale ragione, si è interrogato sull’opportunità di avvalersi del potere di modulazione degli effetti della decisione di annullamento, facendoli decorrere soltanto dal gennaio 2016 e dando così il tempo al Governo di correggere il decreto sub iudice. Di qui l’ordinanza di rinvio pregiudiziale innanzi alla Corte di giustizia, essendo coinvolta, a monte, proprio una normativa di matrice europea.
Più precisamente, il giudice francese ha domandato anzitutto se un giudice nazionale sia tenuto, in tutti i casi, ad adire in via pregiudiziale la Corte di giustizia affinché sia essa a stabilire se occorra mantenere provvisoriamente in vigore le disposizioni ritenute contrarie al diritto UE. In seconda battuta, ha chiesto se, effettivamente, nel caso di specie venissero in gioco esigenze imperative di tutela dell’ambiente, tali da giustificare la modulazione degli effetti dell’annullamento.
Per quanto concerne la seconda questione, la Corte di giustizia, richiamando un proprio precedente,[2] ha statuito che, in presenza di rigorose condizioni, il giudice nazionale, in via del tutto eccezionale, può essere autorizzato ad amministrare gli effetti dell’annullamento, a condizione che tale limitazione risulti necessaria alla luce di considerazioni imperative connesse alla tutela dell’ambiente e tenuto conto delle specifiche circostanze della controversia sottoposta al suo esame.[3] Circa, invece, la prima questione, la Corte ha risposto ponendosi sulla scia della giurisprudenza che ha delineato i confini dell’obbligo di rinvio pregiudiziale. Prima di analizzare le statuizioni della Corte di giustizia sul punto, giova ripercorrere, sia pur brevemente, l’evoluzione dell’interpretazione del paragrafo 3 dell’art. 267 TFUE.
II. L’obbligo flessibile di rinvio pregiudiziale: la teoria dell’acte clair
Come noto, l’art. 267, par. 3, TFUE si rivolge ai giudici nazionali di ultima istanza, sancendo che essi sono “tenuti” a rivolgersi alla Corte di giustizia qualora dinanzi a loro venga sollevata una questione pregiudiziale (di validità e, per quello che in questa sede interessa) di interpretazione. La finalità dell’obbligo de quo è quella di assicurare l’uniforme applicazione del diritto dell’Unione, la quale sarebbe pregiudicata laddove all’interno dei vari ordinamenti nazionali si consolidassero orientamenti ermeneutici difformi.
Stando al tenore letterale della disposizione, l’obbligo parrebbe incondizionato. In effetti, in un primo momento la Corte di giustizia, nella sentenza Da Costa,[4] si espresse in termini rigorosi, ammettendo l’esistenza di una sola (logica) eccezione: il giudice di ultima istanza sarebbe stato svincolato dall’obbligo soltanto quando “la questione sollevata sia materialmente identica ad altra questione, sollevata in relazione ad analoga fattispecie, che sia già stata decisa in via pregiudiziale” (c.d. acte éclairé).
Sennonché tale rigidità manifestò presto i propri limiti. Da un lato, il sempre maggiore impatto del diritto comunitario, unitamente al progressivo ampliamento geografico della (allora) Comunità, rischiava di “seppellire” la Corte di giustizia stessa sotto una “marea” ingestibile di rinvii pregiudiziali. Dall’altro lato, i giudici nazionali si mostrarono restii a spogliarsi del tutto delle proprie prerogative interpretative.[5]
Così la Corte di giustizia, con la sentenza CILFIT,[6] mutò in parte orientamento. Anzitutto, chiarì che il giudice nazionale di ultima istanza avrebbe potuto astenersi dal rinvio, non solo nel caso in cui una precedente sentenza avesse già affrontato (e risolto) una questione identica, ma anche quando fosse reperibile “una giurisprudenza costante della Corte che, indipendentemente dalla natura dei procedimenti da cui sia stata prodotta, risolva il punto di diritto litigioso, anche in mancanza di una stretta identità fra le materie del contendere”.[7] Ma soprattutto, aggiunse che il giudice nazionale avrebbe potuto omettere il rinvio se “la corretta applicazione del diritto comunitario può imporsi con tale evidenza da non lasciar adito ad alcun ragionevole dubbio sulla soluzione da dare alla questione sollevata”.[8] Tuttavia, “prima di giungere a tale conclusione, il giudice nazionale deve maturare il convincimento che la stessa evidenza si imporrebbe anche ai giudici degli altri Stati membri ed alla Corte di giustizia. Solo in presenza di tali condizioni il giudice nazionale può astenersi dal sottoporre la questione alla Corte risolvendola sotto la propria responsabilità”.[9]
Dalla sentenza CILFIT in poi, tale principio di diritto non è stato più oggetto di rimeditazioni, venendo richiamato pressoché testualmente in tutte le sentenze che si sono occupate della questione, o comunque essendo dato per acquisito.[10] La sentenza in commento non fa eccezione.
Più precisamente, in essa la Corte di giustizia ha puntualizzato che l’esistenza di un acte clair deve essere valutata “in funzione delle caratteristiche proprie del diritto dell’Unione, delle specifiche difficoltà che la sua interpretazione presenta e del rischio di divergenze giurisprudenziali all’interno dell’Unione”.[11] In seguito, passando alla risoluzione della questione posta dal Conseil d’État, la Corte di giustizia ha affermato che, in linea di principio, sussiste l’obbligo di rinvio, affinché sia la Corte di giustizia medesima a valutare la sussistenza o meno delle condizioni che legittimano la modulazione degli effetti caducatori di un atto contrario al diritto comunitario. Obbligo che, tuttavia, si giustifica alla luce delle circostanze del caso, valutate proprio facendo leva sui criteri enunciati nella sentenza CILFIT.
A tal proposito, i giudici di Lussemburgo hanno sottolineato anzitutto il fatto che la possibilità di limitare nel tempo gli effetti di una dichiarazione di illegittimità di un atto interno contrario a diritto comunitario ha costituito oggetto soltanto di una precedente decisione.[12] Hanno, inoltre, rimarcato l’eccezionalità della questione, dal momento che, pur in nome di un’esigenza di primo ordine (ossia la tutela ambientale), la possibilità accordata ai giudici nazionali conduce a un vulnus sia della primauté del diritto dell’Unione, sia della sua uniforme applicazione negli Stati membri.[13] Però, la Corte di giustizia non esclude che, in futuro, un giudice di ultima istanza possa sentirsi svincolato dall’obbligo di rinvio, purché “sia persuaso che l’esercizio di tale eccezionale facoltà non sollevi alcun ragionevole dubbio” e specificando che “l’assenza di dubbi in tal senso necessita di prova circostanziata”.[14]
La ragione del successo del principio di diritto elaborato nella sentenza CILFIT è facilmente intuibile. Nonostante all’apparenza possa sembrare piuttosto rigoroso, imponendo condizioni che sono state definite “diaboliche”,[15] nei fatti immette nel circuito interpretativo tra giudici di ultima istanza e Corte di giustizia una buona dose di flessibilità. Da un lato consente ai giudici nazionali di svincolarsi dall’obbligo di rinvio con una certa facilità, ammantando di chiarezza anche quelle disposizioni che, in realtà, sono lontane dall’essere acte clair.[16] Dall’altro lato, in linea di massima, consente alla stessa Corte di giustizia di assicurare il proprio primato interpretativo in relazione alle questioni maggiormente delicate, senza con ciò compromettere i propri rapporti coi giudici di ultima istanza degli Stati membri.[17]
La sentenza in commento costituisce una chiara manifestazione di quanto appena detto. A ben vedere, infatti, un solo precedente della Corte di giustizia, in casi ordinari, può ben costituire un sufficiente appiglio per i giudici nazionali al fine di invocare la teoria dell’acte clair, se non finanche ritenere la questione definitivamente chiarita (acte éclairé) evitando così il rinvio. In questo caso specifico, però, l’eccezionalità della prerogativa assegnata ai giudici interni (vale a dire il potere di scongiurare l’invalidazione di atti interni contrari al diritto dell’Unione) ha indotto la Corte di giustizia ad una maggiore prudenza. Da un lato, essa non ha ritenuto sufficiente un solo precedente; dall’altro lato, ha messo in guardia i giudici nazionali da un’eccessiva disinvoltura nell’utilizzo autonomo del suddetto potere, senza il coinvolgimento della Corte di giustizia medesima, esigendo una “circostanziata dimostrazione” circa la sussistenza delle condizioni richieste dalla sua stessa giurisprudenza per l’attivazione del potere di modulazione degli effetti caducatori.
III. Fattori di irrigidimento dell’obbligo di rinvio
L’obbligo di cui all’art. 267, par. 3, TFUE, secondo l’interpretazione datane dalla Corte di giustizia, si presta dunque a un’applicazione piuttosto flessibile. Cionondimeno, dobbiamo necessariamente tenere conto di alcuni fattori esterni a tale norma, almeno astrattamente idonei a rendere suddetto obbligo più stringente.
Da questo punto di vista, è bene premettere che per lungo tempo la Comunità (oggi Unione) non ha conosciuto idonei meccanismi di reazione nei confronti degli Stati membri e/o dei giudici di ultima istanza nel caso di ingiustificata omissione del rinvio pregiudiziale.[18] Conseguenza inevitabile è stata l’accentuazione della flessibilità dell’obbligo.
Negli ultimi quindici anni, invece, il quadro è considerevolmente mutato, grazie alla giurisprudenza della stessa Corte di giustizia (non riguardante però direttamente l’interpretazione dell’art. 267 TFUE) e della giurisprudenza della Corte europea dei diritti umani. Di qui il carattere (per così dire) esterno dei fattori di irrigidimento dell’obbligo di rinvio.
III.1. La responsabilità dello Stato per violazione del diritto dell’Unione
Com’è noto, nella sentenza Köbler,[19] la Corte di giustizia ha affermato il diritto al risarcimento del danno in favore del cittadino di uno Stato membro nel caso in cui la violazione del diritto comunitario sia stata posta in essere da un organo giurisdizionale.[20] Tale pronuncia ha rappresentato l’ultimo tassello del sistema di responsabilità degli Stati membri per violazione del diritto comunitario: in relazione alle violazioni perpetrate da altri organi statali, infatti, il diritto al risarcimento del danno era già stato affermato in pregresse pronunce, a partire dalla notissima sentenza Francovich.[21]
Ebbene, la sentenza Köbler, tra gli indici cui il giudice si deve riferire per individuare una “violazione grave e manifesta”, inserisce anche “la mancata osservanza, da parte dell'organo giurisdizionale di cui trattasi, del suo obbligo di rinvio pregiudiziale”.[22] Pertanto, di fronte all’omesso rinvio pregiudiziale da parte di un giudice di ultima istanza, la parte interessata può avviare un successivo processo volto a far accertare la responsabilità dello Stato. Questo secondo giudice, chiaramente, per accertare se vi sia stata effettivamente un’omissione colpevole, deve riferirsi ai criteri CILFIT, e quindi, sostanzialmente, verificare se, nel caso di specie, sussista o meno un acte clair o un acte éclairé.
In definitiva, il rimedio risarcitorio di fronte al giudice nazionale sembrerebbe effettivamente porsi come un fattore di irrigidimento dell’obbligo di cui all’art. 267, par. 3, TFUE. Sennonché, dobbiamo tenere conto di due aspetti.
Il primo è che questo tipo di responsabilità non è imputata direttamente in capo al negligente giudice di ultima istanza, bensì allo Stato. Pertanto, il “grado di irrigidimento” dell’obbligo nei confronti del giudice di ultima istanza è direttamente proporzionale alla quantità di azioni di rivalsa promosse dai vari Stati membri nei confronti dei giudici medesimi.[23]
Il secondo aspetto è che la stessa sentenza Köbler, a ben vedere, ridimensiona il riferimento alla mancata osservanza dell’obbligo di rinvio. Infatti, nel procedimento principale che aveva occasionato quel rinvio pregiudiziale, il Verwaltungsgerichtshof[24] aveva dato torto al ricorrente interpretando una disposizione in maniera opposta rispetto alla lettura data, su un caso del tutto analogo, dalla Corte di giustizia, contestualmente disattendendo l’istanza di rinviare nuovamente la questione interpretativa alla Corte. Nonostante la violazione dei criteri CILFIT da parte del giudice austriaco sembrasse palese, la Corte di Lussemburgo ha escluso che nel caso di specie potesse parlarsi di violazione sufficientemente caratterizzata.[25] Risulta piuttosto evidente che, se anche i giudici nazionali davanti ai quali sono proposte domande risarcitorie dovessero ispirarsi a una lettura tanto rigorosa, i casi di accoglimento di tali domande si ridurrebbero drasticamente.
III.2. La responsabilità dello Stato per violazione dell’art. 6 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali
Un secondo fattore di “irrigidimento” dell’obbligo di rinvio sembrerebbe potersi ricavare dalla recente giurisprudenza della Corte europea dei diritti umani. A fronte del mancato rinvio pregiudiziale da parte di giudici di ultima istanza, infatti, alcuni cittadini hanno pensato di rivolgersi direttamente alla Corte di Strasburgo, lamentando una violazione dell’art. 6 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali.
In questo modo, tale Corte è stata posta in una posizione per certi versi scomoda. Infatti, da un lato le è stata data la possibilità di venire in soccorso della Corte di giustizia, contribuendo ad aprire un nuovo orizzonte rimediale di fronte all’omissione di rinvii pregiudiziali obbligatori. Dall’altro lato, tuttavia, è stata anche esposta al rischio di invadere le competenze della stessa Corte di giustizia, potendo coi propri pronunciamenti sia mettere in discussione gli stessi criteri della sentenza CILFIT, sia prendere posizione su questioni interpretative inerenti al diritto dell’Unione.[26] Ben consci di tutto ciò, i giudici di Strasburgo hanno optato per una posizione prudente e piuttosto formalista.[27]
La prima sentenza di rilievo è Ullens de Schooten.[28] In tale pronuncia, la Corte europea dei diritti umani ha anzitutto richiamato la giurisprudenza della Corte di giustizia, rammentando che proprio la sentenza CILFIT contempla eccezioni all’obbligo di rinvio. Eccezioni sulle quali il giudice di ultima istanza può fare leva, purché ne dia conto in motivazione.[29] Ed è proprio il profilo motivazionale ad assumere primaria importanza. Invero, per la Corte europea dei diritti umani il giudice di ultima istanza realizzerebbe una condotta arbitraria, e quindi contraria all’art. 6 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, proprio laddove mancasse di giustificare il mancato rinvio alla luce della sentenza CILFIT.
La Corte europea, quindi, non solo si è rifatta interamente alla giurisprudenza della Corte di giustizia in tema di obbligo di rinvio, ma, appuntandosi sul profilo formale della presenza di una motivazione, si è anche astenuta dal pronunciarsi sulla sussistenza o meno, nel procedimento principale, di un effettivo acte clair giustificante il mancato rinvio.[30]
La posizione equilibrata assunta dalla Corte europea dei diritti umani in questa pronuncia ha trovato una piena conferma qualche anno dopo nel caso Dhahbi.[31] Anche in questa occasione, infatti, la Corte si è limitata a esaminare il profilo motivazionale; ma questa volta è pervenuta a una condanna dello Stato italiano, avendo constatato che “il ragionamento della Corte di cassazione non contiene alcun riferimento alla giurisprudenza della CGUE”.[32]
Nelle successive sentenze Schipani[33] e (soprattutto) Wind Telecomunicazioni,[34] invece, la Corte di Strasburgo, pur mantenendo un approccio di tipo formalista, ha assunto un atteggiamento ancora meno rigoroso, ritenendo sufficiente la presenza di una motivazione implicita.[35] Sennonché, pare opportuno attendere prima di esprimere un giudizio definitivo in merito a questo nuovo orientamento, non essendo ancora chiaro se si tratti di un effettivo ammorbidimento dell’onere di motivazione preteso dalla Corte europea dei diritti umani o, piuttosto, del frutto delle peculiarità dei casi decisi.
IV. Rilievi conclusivi
In conclusione, risulta pienamente confermata l’impressione che l’obbligo di rinvio pregiudiziale di cui all’art. 267 TFUE vada studiato andando oltre la sola giurisprudenza CILFIT, costante da circa trenta anni e confermata anche dalla sentenza Association France Nature Environnement. In particolare, occorre tener conto di alcuni fattori esterni, costituiti dalla giurisprudenza della Corte di giustizia in tema di responsabilità degli Stati membri (in particolare, sentenze Köbler e Traghetti del Mediterraneo) e dalla più recente giurisprudenza della Corte europea dei diritti umani. Fattori di sicuro irrigidimento dell’obbligo, ma che, a uno sguardo più approfondito, mostrano non poche crepe, condizionati come sono, in un caso, da contingenze interne ai singoli Stati membri e, nell’altro caso, dalla correlazione a un parametro puramente formale, quale è l’assenza o meno di una motivazione giustificante il mancato rinvio.
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European Papers, Vol. 2, 2017, No 1, European Forum, Insight of 29 March 2017, pp. 383-391
ISSN 2499-8249 - doi: 10.15166/2499-8249/126
* Dottorando di ricerca in Scienze giuridiche, curriculum di Diritto pubblico, Università degli Studi di Perugia, federico.pani@studenti.unipg.it.
[1] Corte di giustizia, sentenza del 28 luglio 2016, causa C-379/15, Association France Nature Environnement. Cfr., per un commento alla stessa sentenza, G. Gentile, Inter-Environnement Expanded: Another brick in the Wall of EU Law Supremacy?, in European Papers – European Forum, Insight del 29 marzo 2017, p. 1 et seq.
[2] Corte di giustizia, sentenza del 28 febbraio 2012, causa C-41/11, Inter-Environnement Wallonie e Terre wallonne.
[3] Association France Nature Environnement, cit., par. 33-43.
[4] Corte di giustizia, sentenza del 27 marzo 1963, cause riunite 28-30/62, Da Costa et al.
[5] A tal proposito, si segnalano in particolare le sentenze del Conseil d’État francese del 22 dicembre 1978, Cohn-Bendit, e del 12 ottobre 1979, Syndicat des importateurs des vetements (sulle quali cfr. G. Bebr, The Rambling Ghost of “Cohn-Bendit”: Acte Clair and the Court of Justice, in Common Market Law Review, 1983, p. 439 et seq.). In tali occasioni il Conseil d’État, per evitare il rinvio pregiudiziale, si avvalse della teoria dell’acte clair, traslandola dall’area dell’interpretazione dei trattati internazionali a quella dell’interpretazione del diritto comunitario. Invero, l’ordinamento francese in passato affidava l’interpretazione dei trattati internazionali in via esclusiva al Ministero degli affari esteri, riservando al giudice soltanto l’applicazione degli stessi. Cionondimeno, i giudici francesi – e soprattutto il Conseil d’État –, per limitare le ingerenze dell’esecutivo, elaborarono la doctrine de l’acte claire, che consentì loro di evitare di chiamare in causa il Ministero allorquando, a loro avviso, il significato di una certa disposizione fosse stato a tal punto chiaro da non necessitare di alcun chiarimento interpretativo. Allo stesso modo, nelle sentenze menzionate il Conseil d’État, ravvisando in alcune (per il vero controverse) disposizioni del diritto comunitario un acte clair, si astenne dall’operare il doveroso rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia.
[6] Corte di giustizia, sentenza del 6 ottobre 1982, causa 283/81, Srl CILFIT et al.
[7] Ivi, par. 14 (corsivo aggiunto).
[8] Ivi, par. 16 (corsivo aggiunto).
[9] Ibidem. Come pacificamente riconosciuto, con questa pronuncia la Corte di giustizia fece propria la teoria dell’acte clair, come visto già utilizzata dal Consiglio di Stato francese per eludere l’obbligo: cfr., per tutti, M. Lagrange, Note a Société C.I.L.F.I.T. et Lanificio Di Gevardo S.p.a. c. Ministère de la Santè Rome, in Revue trimestrielle de droit européen, 1983, p. 159 et seq.
[10] È quanto avviene, ad esempio, nella recente sentenza del 5 aprile 2016, causa C-689/13, Puligienica Facility Esco SpA, su cui cfr. E. Cimiotta, Ancora sulla portata e gli effetti dell'art. 267 TFUE. In margine al caso Puligienica, in European Papers, 2016, vol. 1, n. 3, p. 611 et seq.
[11] Association France Nature Environnement, cit., par. 50.
[12] Inter-Environnement Wallonie e Terre wallonne, cit.
[13] Association France Nature Environnement, cit., par. 51.
[14] Ivi, par. 52.
[15] Così le definisce G. Tesauro, Diritto comunitario, Padova: CEDAM, 2008, p. 333.
[16] Alcuni esempi, relativamente all’esperienza italiana, possono trovarsi in M. Condinanzi, I giudici italiani «avverso le cui decisioni non possa porsi un ricorso giurisdizionale di diritto interno» e il rinvio pregiudiziale, in Diritto dell’Unione europea, 2010, p. 323 et seq.
[17] Cfr. F. Ferraro, The Consequences of the Breach of the Duty to make Reference to ECJ for a Preliminary Ruling, in Diritto dell’Unione europea, 2015, p. 592 et seq.
[18] Tale omissione avrebbe potuto occasionare unicamente l’attivazione di una procedura d’infrazione ai sensi dell’attuale art. 258 TFUE. Rimedio che, all’evidenza, si rivela non propriamente adatto, giacché assai raramente la Commissione interviene di fronte a singoli inadempimenti di giudici di ultima istanza. Il dato empirico, dal resto, dimostra che nessuno dei procedimenti d’infrazione effettivamente avviati dalla Commissione in ragione di un mancato rinvio pregiudiziale è poi sfociato in un ricorso alla Corte: cfr. S. De Maria, Recenti sviluppi della giurisprudenza comunitaria in materia di responsabilità degli Stati membri per violazione del diritto comunitario, in Rivista italiana di diritto pubblico comunitario, 2004, p. 888 et seq.
[19] Corte di giustizia, sentenza del 30 settembre 2003, causa C-224/01, Köbler c. Austria. Nello stesso senso, anche Corte di giustizia, sentenza del 13 giugno 2006, causa C-173/03, Traghetti del Mediterraneo (in particolare, par. 32).
[20] Per un inquadramento generale, cfr. G. Vitale, La logica del rinvio pregiudiziale tra obbligo di rinvio per i giudici di ultima istanza e responsabilità, in Rivista italiana di diritto pubblico comunitario, 2013, p. 59 et seq., nonché, da ultimo, P. Mengozzi, La responsabilità dello Stato per atti del potere giudiziario: dalla sentenza Köbler alla sentenza Ferreira da Silva e Brito, in Diritto dell’Unione europea, 2016, p. 401 et seq.
[21] Corte di giustizia, sentenza del 19 novembre 1991, cause riunite C-6/90 e C-9/90, Francovich et al. c. Italia.
[22] Köbler c. Austria, cit., par. 55.
[23] In Italia, ad esempio, la legge n. 117 del 1988 in materia di risarcimento dei danni cagionati nell’esercizio delle funzioni giudiziarie e responsabilità civile dei magistrati, a seguito delle modifiche apportate dalla legge n. 18 del 2015 sulla disciplina della responsabilità civile dei magistrati, statuisce che lo Stato sia tenuto a rivalersi nei confronti del giudice soltanto in caso di “dolo o negligenza inescusabile”.
[24] Corte di ultima istanza austriaca in materia amministrativa.
[25] Per approfondimenti, cfr. S. De Maria, Recenti sviluppi, cit., p. 897 et seq.
[26] Analogamente, F. Ferraro, The Consequences of the Breach, cit., p. 613 et seq.
[27] Cfr. A. Di Stasi, Equo processo ed obbligo di motivazione del mancato rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia da parte del giudice di ultima istanza nella giurisprudenza della Corte di Strasburgo, in Federalismi, 30 settembre 2016.
[28] Corte europea dei diritti umani, sentenza del 20 settembre 2011, n. 3989/07 e 38353/07, Ullens de Schooten et al. c. Belgio.
[29] Ivi, par. 56.
[30] Nella fattispecie, la Corte ha quindi negato ai ricorrenti l’equa soddisfazione di cui all’art. 41 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, proprio perché tanto la Cour de cassation quanto il Conseil d’État avevano pienamente assolto l’onere motivazionale.
[31] Corte europea dei diritti umani, sentenza dell’8 aprile 2014, n. 17120/09, Dhahbi c. Italia, su cui cfr. E. D’Alessandro, Giudice di ultima istanza e obbligo di rinvio pregiudiziale interpretativo: il caso «Dhahbi c. Italia» innanzi alla Corte europea dei diritti dell’uomo, in Il Foro Italiano, giugno 2014, p. 289 et seq.
[32] Dhahbi c. Italia, cit., par. 33.
[33] Corte europea dei diritti umani, sentenza del 21 luglio 2015, n. 38369/09, Schipani et al. c. Italia, sulla quale cfr. S. Marino, L’obbligo di rinvio pregiudiziale fra responsabilità dello Stato e circolazione della sentenza dell’Unione, in Rivista di diritto internazionale, 2015, p. 1270 et seq.
[34] Corte europea dei diritti umani, sentenza dell’8 settembre 2015, n. 5159/14, Wind telecomunicazioni c. Italia.
[35] Segnatamente, in Schipani la Corte europea dei diritti umani ha escluso che potesse rintracciarsi una motivazione implicita, condannando così nuovamente lo Stato italiano. Viceversa, nel caso Wind Telecomunicazioni, pur mancando un riferimento espresso alla giurisprudenza UE, la Corte europea dei diritti umani ha desunto tra le maglie della motivazione le ragioni del mancato rinvio.