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Keywords: protection of the right to private life – torture and inhuman or degrading treatment or punishment – Greek System of International Protection – repatriation – extradition –Turkey.
La recente sentenza B.A.C. c. Grecia[1] ha rappresentato l’occasione per una presa di posizione piuttosto innovativa da parte della Corte europea dei diritti umani, che ha ricostruito, in termini particolarmente incisivi, il rilievo giuridico dell’inattività nel trattamento di una domanda di protezione internazionale da parte delle autorità nazionali, le cui condotte omissive o gli eccessivi ritardi nell’esame delle richieste di protezione sarebbero idonee ad integrare una violazione del diritto al rispetto della vita privata e familiare. La Corte ha così ricavato dall’art. 8 CEDU l’esistenza di un obbligo positivo consistente nel predisporre una procedura non solo effettiva ed accessibile,[2] ma anche volta a garantire l’esame di una domanda di protezione internazionale in tempi ragionevolmente brevi, al fine di ridurre nella misura del possibile la situazione di precarietà ed incertezza in cui versino i richiedenti asilo, e ciò indipendentemente dalla situazione contingente in cui si trovi lo Stato ospitante. Secondo questa, per molti aspetti inedita, ricostruzione della Corte, dall’art. 8 CEDU discenderebbe altresì l’obbligo per le Parti contraenti di evitare di porre in essere o di rimuovere qualsiasi impedimento allo sviluppo e al consolidamento di reti e legami sociali già nel corso dell’esame delle domande di protezione internazionale.
Il caso ha avuto origine dalla paradossale vicenda di un cittadino di nazionalità turca, richiedente asilo in Grecia per oltre dodici anni. In fuga dalla Turchia, dove era stato perseguito per le sue convinzioni politiche, il ricorrente giunse sul territorio ellenico nel 2002, e lì avanzò subito una richiesta di protezione internazionale. Detta richiesta fu inizialmente respinta; ad essa tuttavia fece seguito, su istanza dell’interessato, un parere favorevole al riconoscimento dello status di protezione internazionale da parte della Commissione nazionale per l’asilo, che avrebbe dovuto dar luogo, secondo la normativa greca allora vigente, ad una decisione ministeriale entro un termine di novanta giorni.[3] Nell’attesa di tale deliberazione, il ricorrente ha ripetutamente ottenuto il rinnovo semestrale della c.d. “carta per richiedenti asilo”, che tuttavia non costituisce un vero e proprio titolo di soggiorno, ma si limita, nelle more dell’esame della domanda di protezione, ad accordare ai richiedenti una sorta di “statut toléré”,[4] finalizzato ad evitarne l’espulsione, ma inidoneo all’accesso agli interventi e alle prestazioni di sicurezza sociale. A ciò si aggiunga che, tra l’altro, per un periodo di oltre dodici anni, al ricorrente sono stati preclusi, il permesso per esercitare attività lavorative o di formazione professionale, l’ottenimento di una patente di guida, l’apertura di un conto corrente, la possibilità di avviare la procedura finalizzata al ricongiungimento familiare. Contestualmente, la domanda di estradizione del ricorrente, formulata dal Governo turco, veniva unanimemente respinta dalle giurisdizioni elleniche,[5] sulla base della costatazione dell’effettiva esistenza di un rischio reale, per il ricorrente, di essere nuovamente sottoposto a tortura o a trattamenti inumani o degradanti in caso di rimpatrio in Turchia.
Per quanto attiene alle eccezioni sulla ricevibilità, il Governo greco aveva lamentato il mancato previo esaurimento dei ricorsi interni, facendo leva su un presunto rigetto tacito della richiesta di asilo: avverso tale implicita decisione di diniego infatti, secondo le autorità greche, il ricorrente non avrebbe né proposto appello, né avanzato richiesta di riesame, né tantomeno formulato una domanda di autorizzazione al soggiorno per motivi umanitari.[6] Dopo aver brevemente ricordato caratteristiche e finalità della regola del previo esaurimento dei ricorsi interni ai sensi dell’art. 35 CEDU, la Corte ha tuttavia agevolmente respinto le obiezioni elleniche, sulla base di una tendenziale incongruenza tra l’eccezione del rigetto tacito e del conseguente non esaurimento dei ricorsi interni, da un lato, e le condotte tenute dalle varie autorità nazionali, dall’altro lato, da cui risulta possibile ricavare, in termini inequivocabili, la convinzione della perdurante pendenza dell’esame della domanda di protezione internazionale.[7]
Nel merito, dopo aver rievocato i principi fondamentali in tema di ingresso, soggiorno e allontanamento degli stranieri,[8] la Corte si è in particolare soffermata sugli obblighi positivi che gravano sugli Stati in base all’art. 8 CEDU, relativi ad un pronto e celere esame delle domande di asilo, così da ridurre la condizione di precarietà ed incertezza in cui si trovano i richiedenti asilo. Con specifico riferimento al caso in esame, la Corte ha soprattutto deplorato il comportamento omissivo delle autorità greche per un periodo estremamente lungo e decisamente eccessivo, soprattutto in considerazione di un duplice ordine di ragioni: l’esistenza di un parere favorevole da parte della Commissione per l’asilo e il rigetto, da parte dei giudici greci, della richiesta di estradizione formulata dalla Turchia.[9] La Corte ha in particolare insistito sugli effetti nefasti che simili ritardi hanno determinato sulla vita privata, familiare e sociale del ricorrente, la cui condizione differisce peraltro profondamente sia dalla situazione di timore, incertezza e tensione derivante dall’adozione di decisioni definitive di allontanamento,[10] sia dai tentativi di sanare un’originaria irregolarità del soggiorno, facendo valere legami di natura familiare.[11]
La Corte ha successivamente esaminato il ricorso sotto il profilo degli articoli 3 e 13 della Convenzione, rilevando la costante incertezza giuridica della posizione del ricorrente, stante la perdurante pendenza della domanda di protezione,[12] il cui rigetto, in assenza di un’accurata valutazione delle circostanze individuali ed il rimpatrio in Turchia che ne conseguirebbe, risulterebbero idonei ad integrare una violazione della Convenzione.[13] Le peculiarità delle argomentazioni utilizzate a sostegno di questa conclusione riflettono tuttavia l’estrema complessità del caso in esame ed impongono, più in generale, una riflessione più ampia rispetto all’annosa questione della riammissione tra Grecia e Turchia. La Corte non ha infatti insistito più di tanto sulla situazione in cui versa da tempo il sistema greco di protezione internazionale, discostandosi su questo profilo tanto dalle tesi sostenute dal ricorrente,[14] quanto dall’orientamento consolidato della giurisprudenza rispetto allo Stato ellenico.[15] La Corte ha piuttosto fatto leva sulle pregresse, gravi e circostanziate violazioni del divieto di trattamenti inumai o degradanti (art. 3 CEDU) subìte in precedenza dal ricorrente sul territorio turco, mentre un rilievo soltanto marginale è stato accordato alla partecipazione della Turchia al sistema convenzionale.[16] Occorre peraltro osservare come il rischio concreto di un effettivo rimpatrio in Turchia risultasse, alla luce di un’analisi complessiva della vicenda, di fatto piuttosto remoto e limitato, soprattutto a seguito del rigetto unanime della richiesta di estradizione: la Corte si è tuttavia premurata di sottolineare la differenza esistente tra il rigetto della richiesta di estradizione e l’ottenimento della protezione internazionale, quest’ultima indubbiamente ritenuta idonea a garantire uno status giuridico più definito, articolato, completo e tutelante per l’individuo.
In una diversa prospettiva, la vicenda solleva peraltro una serie di delicati interrogativi anche in termini più generali: benché infatti le circostanze che hanno dato origine al caso in esame si pongano su un piano evidentemente ben diverso rispetto all’ambito di applicazione della controversa intesa tra Unione europea e Turchia per il contenimento dei flussi migratori,[17] la costante preoccupazione in merito alla situazione di generalizzata violazione dei diritti fondamentali in Turchia, che emerge chiaramente dalla giurisprudenza più recente della Corte europea, induce ad interrogarsi ancora più seriamente sulla già di per sé problematica questione della conformità agli standard convenzionali dell’esecuzione di misure e meccanismi di riammissione che quello strumento di cooperazione prevede.[18]
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European Papers, Vol. 1, 2016, No 3, European Forum, Highlight of 30 December 2016, pp. 1289-1292
ISSN 2499-8249 - doi: 10.15166/2499-8249/99
* Ricercatore di Diritto internazionale, Università per Stranieri di Perugia, maura.marchegiani@unistrapg.it. Contributo realizzato nell’ambito del progetto di ricerca SIR 2014 (RBSI14HXGR), finanziato dal MIUR con D.D. 1350 del 25 giugno 2015.
[1] Corte europea dei diritti umani, sentenza del 13 ottobre 2016, n. 11981/15, B.A.C. c. Grecia. Per un primo commento, M. Karavias, 12 Years an Asylum Seeker: Failure of States to Deal With Asylum Applications May Breach Applicants’ Right to Respect for Their Private Life, in EJIL: Talk!, 26 ottobre 2016.
[2] Corte europea dei diritti umani, sentenza del 21 gennaio 2011, n. 30696/09, M.S.S. c. Belgio e Grecia [GC], par. 262.
[3] Per una ricostruzione dettagliata di cause, eventi e caratteristiche della vicenda, si confronti la narrativa della sentenza B.A.C. c. Grecia, cit., in particolare par. 5-17.
[4] Ivi, par. 10.
[5] Corte d’Appello di Patrasso, decisione del 26 marzo 2013; Corte di Cassazione greca, decisione del 26 aprile 2013.
[6] B.A.C. c. Grecia, cit., par. 25.
[7] Ivi, par. 27-31. L’evidenza emergerebbe in particolare dal reiterato rinnovo della carta per richiedenti asilo e dallo scambio di comunicazioni tra le autorità greche, intercorse fino al 2015, al momento dell’inoltro del ricorso presso la Cancelleria della Corte.
[8] Corte europea dei diritti umani, sentenza del 17 gennaio 2006, n. 51431/99, Aristimuño Mendizabal c. Francia, par. 65-66; M.S.S. c. Belgique et Grèce [GC], cit., par. 262; Corte europea dei diritti umani, sentenza dell’8 aprile 2015, n. 71398/12, M.E. c. Svezia [GC]; Corte europea dei diritti umani, sentenza del 12 giugno 2014, n. 56030/07, Fernández Martínez c. Espagne [GC], par. 114.
[9] B.C.A. c. Grecia, cit., par. 45.
[10] M.E. c. Svezia, cit. Il caso era stato radiato dal ruolo a seguito della successiva adozione di un permesso di soggiorno permanente.
[11] Corte europea dei diritti umani, sentenza del 3 ottobre 2014, n. 12738/10, Jeunesse c. Paesi Bassi [GC], par. 103.
[12] B.C.A. c. Grecia, cit., par. 66.
[13] Ivi, par. 67.
[14] Ivi, par. 57.
[15] Tra le molte pronunce di condanna dello Stato ellenico per la condizione di carenza sistemica del sistema di asilo, si confronti in particolare Corte europea dei diritti umani, sentenza del 7 giugno 2011, n. 2237/08, R.U. c. Grecia.
[16] B.C.A. c. Grecia, cit., par. 62.
[17] Il testo della dichiarazione tra Unione europea e Turchia del 18 marzo 2016 è disponibile su www.consilium.europa.eu. In argomento, in particolare, G.F. Arribas, The EU-Turkey Agreement: A Controversial Attempt at Patching up a Major Problem, in European Papers – European Forum, Insight del 17 ottobre 2016, p. 1 et seq.; J. Poon, EU-Turkey Deal: Violation of, or Consistency with, International Law?, in European Papers – European Forum, Insight del 22 dicembre 2016, p. 1 et seq.
[18] Per approfondimenti sull’argomento, sia consentito il rinvio a M. Marchegiani, L. Marotti, L’accordo tra l’Unione europea e la Turchia per la gestione dei flussi migratori: cronaca di una morte annunciata?, in Diritto Immigrazione e Cittadinanza, 2016 (in corso di pubblicazione).