Sulla riformulazione dei criteri CILFIT: le Conclusioni dell’A.G. Bobek nel caso Consorzio Italian Management e Catania Multiservizi

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Abstract: In its opinion of 15th April 2021 in case C-561/19, Consorzio Italian Management and Catania Multiservizi (ECLI:EU:C:2021:291) AG Bobek proposed to revise the CILFIT criteria which famously concern the duty of the National courts of last instance to request a preliminary ruling. After a brief analysis on the controversial relationship between discretion and duty to request a preliminary ruling, this Insight focuses critically on the three cumulative conditions under which, according to AG Bobek, national judges of last instance have a duty to refer and, in particular, on the condition concerning the existence of a general issue of interpretation of EU law. In the last section, the Insight argues that this condition would downgrade the binding effect of a preliminary ruling and would make it similar to the advisory opinions envisaged by Protocol n. 16 to the European Convention of Human Rights.

Keywords: CJEU – art. 267 TFEU – national court of last resort – CILFIT – obligation to request a preliminary ruling – advisory opinions under Protocol No. 16.
 

I. Premessa

È noto come il rinvio pregiudiziale e le sue condizioni di utilizzo abbiano occupato un posto di spicco nel dibattito dottrinale e giurisprudenziale europeo. Particolarmente controversa appare, da sempre, il rapporto fra la facoltà di rinvio, disposta nei confronti di qualsiasi giudice nazionale dall’art. 267, comma 2, TFUE, e l’obbligo di rinvio, imposto ai giudici di ultima istanza dal comma 3 del medesimo articolo.

Le conclusioni si riferiscono a una singolare situazione processuale avviata da due imprese ricorrenti, il Consorzio Italian Management e la Catania Multiservizi SpA, aggiudicatrici di un appalto di servizi per conto della stazione appaltante Rete Ferrovie Italiane SpA. Le ricorrenti, vedendosi respinta l’impugnativa proposta in primo grado, ricorrevano al Consiglio di Stato, il quale sottoponeva due questioni pregiudiziali alla Corte di giustizia definite con la sentenza del 19 aprile del 2018.[1]

A seguito di tale pronuncia, tuttavia, il Consiglio di Stato ha deciso di proporre un secondo rinvio pregiudiziale alla Corte chiedendole, in estrema sintesi, se, in presenza di dubbi sull’interpretazione fornita dalla Corte, permanesse l’obbligo di rinvio ai sensi dell’art. 267, comma 3, TFUE.

È nell’ambito di tale situazione fattuale che l’Avvocato generale ha ritenuto opportuno sottoporre a verifica l’idoneità dei cd. criteri CILFIT ad assicurare coerenza e compiutezza al problematico sistema concettuale sul quale si fonda l’art. 267, comma 3, TFUE.

II. La proposta di riformulazione dei criteri CILFIT

Le conclusioni dell’Avvocato generale muovono dai principi stabiliti dalla Corte nella sentenza Hoffmann-Laroche[2] replicandone tre aspetti fondamentali: innanzitutto, il fine ultimo del rinvio pregiudiziale deve essere l’interpretazione uniforme e non la corretta applicazione del diritto europeo nel caso di specie; in secondo luogo, la decisione di rinvio pregiudiziale da parte del giudice nazionale deve essere quanto più possibile “oggettiva”, fondata, pertanto, su una analisi della giurisprudenza della Corte e non semplicemente sul caso di specie dinanzi al giudice del rinvio;[3] infine, tale istituto ha la funzione di impedire il sorgere di divergenze interpretative nella giurisprudenza nazionale (e, a fortiori, in tutto l’ordinamento europeo).

Questi tre presupposti dovrebbero, nell’intenzione dell’Avvocato generale, consentire di precisare il presupposto di fondo dell’obbligo di rinvio[4]. Esso non andrebbe rinvenuto nella esistenza di un ragionevole dubbio soggettivo sulla corretta interpretazione o applicazione del diritto europeo riguardo alla specifica controversia pendente di fronte al giudice nazionale, quanto piuttosto nella esistenza di una “divergenza oggettivamente individuata nella giurisprudenza a livello nazionale, che ponga in pericolo l’interpretazione uniforme del diritto europeo nell’ordinamento dell’Unione”.[5]

Alla luce di tale presupposto, l’obbligo di rinvio da parte del giudice di ultima istanza sussisterebbe qualora ricorrano cumulativamente le seguenti tre condizioni: i) la causa a quo deve sollevare una questione generale di interpretazione del diritto dell’Unione europea e non, quindi, una questione relativa alla sua applicazione; ii) su tale questione generale occorre rilevare l’oggettiva esistenza di più interpretazioni ragionevolmente possibili; iii) per tale questione generale, non deve esistere alcuna soluzione deducibile dalla giurisprudenza della Corte di giustizia, ovvero, ove vi fosse una soluzione desumibile dalla giurisprudenza della Corte, il giudice intenderebbe discostarsene.[6]

Queste tre condizioni che devono ricorrere cumulativamente al fine di tramutare la discrezionalità tecnica del giudice di ultima istanza in un vero e proprio obbligo, sono alla base della ricostruzione dell’Avvocato generale.

III. Analisi delle tre condizioni proposte dall’Avvocato Generale Bobek

La prima condizione, vale a dire la necessità che la questione interpretativa del diritto dell’Unione sia generale ovvero generalizzabile, esige che una questione interpretativa sia “formulata a un livello di astrazione ragionevole e appropriato”.[7] Pertanto, la generalità è da riferirsi non solo alla rilevanza o all’importanza giuridica della questione sollevata, ma anche al suo carattere generale, e non limitato al caso pendente di fronte al giudice nazionale.

Questa prima condizione, ad avviso dell’Avvocato generale, sarebbe coerente con la funzione dell’istituto del rinvio pregiudiziale identificata nella sentenza Hoffmann-Laroche, poiché tesa a conseguire l’uniformità interpretativa di una norma giuridica europea.[8]

Nel pensiero dell’Avvocato generale, vi è, quindi, una netta distinzione fra il piano interpretativo e quello applicativo.[9] Da un lato, l’attività ermeneutica dovrebbe tendere ad assicurare nell’ordinamento europeo un’interpretazione univoca delle sue disposizioni concorrendo all’eliminazione di questioni specifiche e incapaci di incidere generalmente e strutturalmente nell’ordinamento dell’Unione. La corretta applicazione, la quale non dovrebbe dar luogo a un rinvio interpretativo, invece, consiste nella sussunzione di fatti specifici all’interno di una cornice normativa e di conseguenza ha l’effetto di favorire la correttezza dell’esito del singolo caso.

Le ragioni di tale netta separazione presuppongono due competenze giurisdizionali distinte. Infatti, nel procedimento a monte, ossia quello interpretativo, sia la Corte di giustizia che il giudice nazionale sono chiamati a svolgere il medesimo compito, ossia interpretare il diritto dell’Unione. Diversamente, le competenze tendono a differenziarsi nel procedimento a valle, ossia quello applicativo, perché solo il giudice nazionale sarà chiamato ad applicare la norma giuridica ai fatti di causa.

Orbene, nonostante l’Avvocato generale rimarchi la distinzione tra interpretazione e corretta applicazione, è fisiologico che a una uniformità interpretativa possa non conseguire una uniformità applicativa nei singoli casi a quibus, poiché questi ultimi, per propria natura, ben possono scaturire da fatti diversi tra loro.

Ecco quindi configurarsi un possibile limite della soluzione proposta; innanzitutto viene trascurato un aspetto fondamentale della attività ermeneutica, e cioè il fatto che la questione interpretativa, sia pur di carattere generale, difficilmente può essere formulata dal giudice nazionale senza contestualizzarla alla luce della fattispecie da decidere. La conseguenza logica è che anche la Corte di giustizia si troverà a dover svolgere la propria attività di esegesi alla luce dell’insieme dei fattori che incidono sulla disposizione da interpretare. In altri termini, sia il giudice nazionale che la Corte di giustizia si troveranno di fronte a una questione astrattamente generale, ma concretamente contestualizzata alla luce dei fatti del caso de quo.

La seconda condizione riguarda la necessità che esistano oggettivamente più interpretazioni ragionevolmente percorribili. A tal fine, è sufficiente che ne esistano perlomeno due, posto che viene utilizzata l’espressione “possibili”, come a indicare che il giudice nazionale di ultima istanza non sia chiamato a compiere un’operazione esegetica impossibile consistente nell’individuazione di tutte le interpretazioni astrattamente possibili.

In ogni caso, né la prima né la seconda condizione sono di per sé sufficienti a far “scattare” l’obbligo di rinvio, neanche in combinazione fra esse, perché, oltre ad una terza condizione di cui subito si dirà, il giudice di ultima istanza deve pervenire a plurime soluzioni che siano “divergenti fra loro”[10] e dunque non sintetizzabili, nel senso che la pluralità di interpretazioni non siano da lui componibili senza l’intervento della Corte di giustizia, di talché il ricorso alla Corte di giustizia sia concepito come assolutamente necessario, e proprio per ciò dovuto.

Infine, la terza e ultima condizione necessaria, unitamente alla prime due, a trasformare la facoltà di rinvio in un obbligo, è l’assenza di una giurisprudenza consolidata della Corte di giustizia, ovvero, anche se esistente, la volontà del giudice di discostarsene o di chiederne ulteriori chiarimenti.

Quest’ultima condizione potrebbe sembrare un elemento innovativo della “rivoluzione” suggerita dall’Avvocato generale. In verità, essa si ricollega alla nota sentenza Da Costa e a.,[11] in cui la Corte di giustizia ha chiarito che l’obbligo di rinvio per il giudice di ultima istanza sussiste se questi si trovi ad affrontare una «nuova questione di interpretazione del diritto dell’Unione», la quale non sia interamente risolvibile facendo ricorso ai precedenti giurisprudenziali, e quand’anche fosse presente giurisprudenza della Corte di giustizia, il giudice voglia invitarla a chiarire o a riconsiderare alcune sue decisioni.

Inoltre, già la sentenza Interedil[12] aveva affermato il principio secondo cui il giudice nazionale, anche non di ultima istanza, non dispone di una discrezionalità piena nell’interpretare il diritto dell’Unione europea. In effetti, l’esistenza di un orientamento interpretativo consolidato della Corte di giustizia obbliga l’organo giurisdizionale nazionale a conformarsi a tale orientamento, disapplicando, se necessario, norme processuali dell’ordinamento a meno che non intenda sollevare rinvio pregiudiziale e favorire, quindi, una sua revisione.[13] Se pertanto un siffatto obbligo già incombe sul giudice non di ultima istanza, a maggior ragione il medesimo principio dovrebbe valere per il giudice di ultima istanza.

Un siffatto principio è precisato nelle conclusioni dell’Avvocato generale Bobek, nel senso che tale valutazione non vada fatta in relazione all’esito della specifica controversia, quanto bensì alla scelta interpretativa compiuta dalla Corte di giustizia.[14] Solo quest’ultima, infatti, secondo l’Avvocato generale, potrebbe consentire al giudice nazionale di esercitare appieno la sua competenza giurisdizionale, ossia applicare nel caso di specie l’interpretazione fornita dalla Corte.

Resta, infine, da precisare cosa debba intendersi per “giurisprudenza consolidata”: l’Avvocato generale ritiene che tale espressione non debba attenere tanto alla quantità numerica di precedenti – sarebbe sufficiente anche uno solo – quanto, invece, al fatto che si tratti di una “posizione giuridica chiaramente formulata”.[15] Questo vuol dire che è dirimente la chiarezza della formulazione del precedente e di riflesso il principio di diritto dallo stesso desumibile.

Orbene, tutte e tre le condizioni da cui scaturisce l’obbligo di rinvio sono sorrette da uno strumento di garanzia di questo nuovo sistema proposto dall’Avvocato generale. Si tratta di uno strumento avente l’obiettivo di offrire un controllo sull’assenza di almeno una delle tre condizioni che lasci impregiudicata la discrezionalità tecnica del giudice a quo. Il giudice di ultima istanza, qualora ritenga inesistente o inoperante una o più delle tre condizioni su esposte, dovrebbe essere tenuto a motivare adeguatamente tale circostanza.[16]

IV. Alcune considerazioni critiche

Una prima considerazione attiene ai rapporti tra facoltà e obbligo di rinvio. Invero, la riformulazione della dottrina CILFIT da parte dell’Avvocato generale si basa su una scomposizione dell’art. 267 TFUE e sulla sua successiva ricomposizione in un diverso ordine logico-giuridico. In particolare, l’Avvocato generale tende a ricostruire il terzo comma della disposizione in continuità con il secondo e, quindi, a concepire il dovere del giudice di ultima istanza come eccezione rispetto alla regola della facoltà, che vige per tutti i giudici nazionali: una eccezione che scatta solo in presenza di tutte e tre le condizioni prospettate dall’Avvocato generale causando, quindi, la trasformazione della facoltà in obbligo.

Orbene, un siffatto capovolgimento non sembra persuasivo. L’assegnazione all’obbligo di rinvio di un ruolo residuale rispetto alla regola che formula una facoltà non è conforme al dato letterale espresso dall’art. 267, comma 3, TFUE e mina la ratio dell’istituto, identificata nell’intento di evitare che questioni di interpretazione del diritto europeo vengano risolte con efficacia di giudicato senza che la Corte di giustizia abbia avuto modo di esprimersi. Tale finalità, preservata almeno in parte dalla giurisprudenza CILFIT, potrebbe invece essere compromessa dal nuovo sistema concettuale suggerito dall’Avvocato generale;[17] al contrario, risulterebbe impregiudicata nelle ipotesi previste dai cd. criteri CILFIT, dal momento questi ultimi si limitano a rendere la regola dell’obbligo di rinvio solo più flessibile[18], rimanendo fedele al dato letterale dell’art. 267 TFUE e alla ratio della disposizione.

Il rovesciamento della figura giuridica dell’obbligo in una facoltà, suggerito dall’Avvocato generale non sembra tener conto della preoccupazione di una frammentazione nell’interpretazione del diritto europeo conseguente alla riluttanza dei giudici nazionali di sollevare un rinvio pregiudiziale in casi dubbi.

Una seconda considerazione attiene alla distinzione tra uniforme interpretazione e corretta applicazione del diritto dell’Unione, che assume un ruolo centrale nel nuovo sistema suggerito dall’Avvocato generale. Come si è detto, è ben difficile prospettare da parte del giudice nazionale una questione astratta di interpretazione del diritto dell’Unione. L’attività esegetica del giudice nazionale, infatti, non è compiuta in astratto ma alla luce di una contestualizzazione fattuale al fine di trarre, dal semplice testo di una disposizione, un contenuto normativo in grado di applicarsi ai fatti di causa. A conferma di ciò, la Corte di giustizia, nella celebre sentenza Foglia c. Novello,[19] palesava l'esigenza che tutte le questioni interpretative sottopostele dovessero contemplare i fatti di causa, posto che il giudice nazionale doveva valutare, alla luce di questi ultimi, la necessità di far risolvere una questione pregiudiziale ai fini della decisione della controversia.[20] Questo poiché, in virtù dell'allora articolo 177 CEE, alla Corte di giustizia è stato demandato il compito di contribuire all'amministrazione della giustizia negli Stati membri e non quello di esprimersi su questioni generali ed ipotetiche.[21]

In definitiva, nel sistema dell’art. 267 TFUE, uniforme interpretazione e corretta applicazione altro non sono che due articolazioni della esigenza di preservare il diritto europeo dalle strutture particolari e frammentate dei sistemi giuridici nazionali.[22]

Una terza considerazione riguarda le critiche che l’Avvocato generale compie nei confronti del criterio dell’atto chiaro, non a torto ritenuto un criterio irrimediabilmente soggettivo, senza però provvedere, contestualmente, a proporre una sua sostituzione con strumenti in grado di “oggettivizzare” il dubbio del giudice di ultima istanza.

Infatti, il criterio dell’acte éclair,[23] come è noto, consiste nel verificare se l’interpretazione di una norma europea, nella sua applicazione ad un caso, “si imponga con tale evidenza da non lasciare adito a ragionevoli dubbi”.[24] A tal fine, indica la Corte di giustizia, il giudice nazionale dovrà verificare se l’interpretazione che esso si accinge ad adottare si imporrebbe con la medesima evidenza ad altro giudice degli altri Stati membri, nonché alla stessa Corte di giustizia, alla luce di una serie di parametri alquanto difficili da utilizzare:[25] la considerazione del carattere peculiare del diritto dell’Unione; il necessario raffronto tra varie versioni linguistiche della disposizione da interpretare; la considerazione delle differenti nozioni giuridiche tra i diversi Stati membri; la necessità di una interpretazione sistematica e teleologica del diritto dell’Unione,[26] e il rischio di divergenze giurisprudenziali nell’ordinamento europeo.[27]

Orbene, il medesimo limite è altresì presente nel nuovo sistema suggerito dell’Avvocato generale.[28] Anche tale sistema, infatti, si fonda su parametri tecnici, che conducono ad una eccessiva discrezionalità del giudice di ultima istanza nell’adempimento dell’obbligo di rinvio, e all’impossibilità di un efficiente controllo.[29]

In realtà, sebbene teoricamente tale sistema sia volto ad arginare la discrezionalità del giudice nazionale, in pratica, con la riformulazione proposta si realizza il risultato opposto, ossia si estende la discrezionalità del giudice di ultima istanza. In particolare, quest’ultimo sarebbe vincolato a promuovere un rinvio solo in presenza di questioni che pongono un problema di interpretazione generale. L’ambiguità di tale formula esporrebbe indissolubilmente l’ordinamento nazionale ed europeo al rischio di una discrezionalità sempre più estesa del giudice nazionale, poiché sarebbe solo quest’ultimo il detentore del potere di valutare se una questione sia di interpretazione generale.

A oltre quarant’anni dalla loro elaborazione, i criteri CILFIT sembrano ancora in grado di garantire un ragionevole grado di flessibilità al principio dell’obbligatorietà del rinvio per il giudice di ultima istanza.[30] Essi, infatti, consentono ai giudici nazionali di sottrarsi ad un vincolo rigido di rinvio pur assicurando alla Corte di giustizia il monopolio interpretativo sulle questioni maggiormente delicate, avvalendosi di un livello adeguato di cooperazione giudiziaria con gli organi giurisdizionali nazionali.[31]

Le difficoltà oggettive emerse nella prassi giurisprudenziale[32] sembrerebbero sconsigliare l’introduzione di ulteriori elementi di incertezza che possano così mettere a repentaglio l’uniforme interpretazione del diritto dell’Unione.[33] Il tentativo di riforma avanzato dall’Avvocato generale, pur mirando a rendere oggettivo il criterio dell’acte clair, finisce per ridurre eccessivamente la portata dell’obbligo di rinvio, accrescendo a dismisura la discrezionalità del giudice di ultima istanza. Invero, la reinterpretazione del terzo comma dell’art. 267, TFUE suggerita nelle conclusioni alla causa C-561/19, ribalta il rapporto intercorrente tra facoltà e obbligo di rinvio, arrivando a concepire quest’ultimo come residuale.

V.  Conclusioni: analogie e dissimilitudini con la procedura consultiva ai sensi del Protocollo n. 16 alla CEDU

Per questa via, il rinvio pregiudiziale assumerebbe le sembianze di un vero e proprio parere emesso dalla Corte di giustizia su questioni generiche o ipotetiche, abbandonando la propria natura di strumento atto a risolvere questioni effettive e attuali concernenti il diritto dell’Unione[34]. Non sembra quindi irragionevole prospettare che la riformulazione della procedura pregiudiziale tenda a essere modellata sul meccanismo di richiesta di parere consultivo previsto dal Protocollo n. 16 alla CEDU.

Tale meccanismo presenta, invero, alcuni elementi in comune proprio con il rinvio pregiudiziale,[35] salvo però distinguersi sotto molteplici profili.[36] In particolare, mentre l’articolo 5 del Protocollo n. 16 indica che i pareri consultivi non sono vincolanti, le sentenze pregiudiziali hanno certamente carattere vincolante nei confronti del giudice a quo.[37] Inoltre, il Protocollo n. 16 prescrive che la richiesta di pareri consultivi sia relativa a questioni di principio, pur formulate in riferimento alla questione pendente innanzi al giudice nazionale.

Questi due caratteri – la non vincolatività dei pareri e l’esigenza di astrattezza nella formulazione della richiesta sembrano assegnare ai pareri consultivi un ruolo ben diverso da quello delle sentenze pregiudiziali. Mentre queste ultime hanno tradizionalmente assunto il ruolo di guida del giudice nazionale nella soluzione del caso di specie,[38] i pareri consultivi sembrano concepiti come uno strumento teso a fornire opzioni interpretative generali per tutti i giudici degli Stati parte della Convenzione.

È paradossale notare come alla proposta di modificare i criteri CILFIT nel senso di accentuare i caratteri di astrattezza delle sentenze pregiudiziali, corrisponda, da parte della giurisprudenza recente della Corte europea dei diritti umani, una tendenza di segno opposto, vale a dire di assegnare ai pareri il compito di determinare l’interpretazione della Convenzione rispetto alla questione specifica che il giudice nazionale richiedente ha il compito di definire.[39]

Orbene, se neppure i pareri consultivi, nonostante richiesti su “questioni di principio”, possono prescindere dai fatti di causa per svolgere appieno la propria funzione di guida interpretativa preventiva, tantomeno una siffatta astrattezza dal contesto fattuale potrà essere ammessa per le questioni pregiudiziali, le quali, dichiaratamente, vengono sottoposte alla Corte di giustizia in quanto la loro soluzione sia necessaria per decidere la controversia.

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European Papers, Vol. 6, 2021, No 2, European Forum, Insight of 9 October 2021, pp. 955-965
ISSN 2499-8249 - doi: 10.15166/2499-8249/508

* Dottorando di ricerca in diritto internazionale e diritto dell’Unione Europea, Università di Roma “La Sapienza”, f.liguori@uniroma1.it. La redazione del presente Insight si è conclusa il 4 ottobre 2021.

[1] Causa C‑152/17 Consorzio Italian Management e Catania Multiservizi ECLI:EU:C:2018:264.

[2] Causa 107/76 Hoffmann‑Laroche ECLI:EU:C:1977:89 par. 5; in tale occasione la Corte ha precisato che: “Nell'ambito dell'art. 177, il quale mira a garantire che il diritto comunitario sia interpretato e applicato in modo uniforme a tutti gli Stati membri, il 3° comma deve particolarmente impedire che in uno Stato membro si consolidi una giurisprudenza nazionale in contrasto con le norme comunitarie”.

[3] Consorzio Italian Management e Catania Multiservizi SpA, conclusioni dell’AG Bobek, cit. par. 91.

[4] Per una analisi critica sull’obbligo di rinvio pregiudiziale e relativa ratio, si veda: H Rasmussen, ‘Remedying the crumbling EC judicial system’ (2000) CMLRev 1108.

[5] Consorzio Italian Management e Catania Multiservizi SpA, conclusioni dell’AG Bobek, cit. par. 133.

[6] Ibid. par. 134.

[7] Ibid. par. 145.

[8] Sulla finalità del rinvio pregiudiziale, si vedano: A Arnull, The European Union and Its Court of Justice (Oxford University Press 2006) 97; J Komárek, ‘In the Court(s) We Trust? On the Need for Hierarchy and Differentiation in the Preliminary Ruling Procedure’ (2007) 32 ELR 470; D Chalmers, ‘The Dynamics of Judicial Authority and the Constitutional Treaty’ in JHH Weiler and CL Eisgruber, Altneuland: The EU Constitution in a Contextual Perspective (Jean Monnet Working Paper 5/04 2004 jeanmonnetprogram.org) 20.

[9] Sulla distinzione tra interpretazione del diritto europeo e applicazione dello stesso nei singoli casi a quo, vedi: G Davies, ‘Abstractness and Concreteness in the Preliminary Ruling Procedure: Implications for the Division of Powers and Effective Market Regulation’ in N Nic Shuibhne (ed.), Regulating the Internal Market (Edward Elgar 2006) 210, 215 ss.

[10] Consorzio Italian Management e Catania Multiservizi SpA, conclusioni dell’AG Bobek, cit. par. 157.

[11] Cause riunite da 28/62 a 30/62 Da Costa e a. ECLI:EU:C:1963:6 p. 38; vedi anche CILFIT e a., cit.

[12] Causa C-396/09 Interedil ECLI:EU:C:2011:671. In essa, la Corte di giustizia ha ritenuto che l’obbligo del giudice di merito di applicare un principio di diritto stabilito dalla Corte di cassazione non fosse assoluto. Infatti, sarebbe potuto venir meno in due casi: sia qualora il giudice abbia in animo di procedere ad un rinvio pregiudiziale, sia qualora egli non voglia sollevare un rinvio ma si conformi ad un previo indirizzo interpretativo della Corte di giustizia.

[13] V. E Cannizzaro, Il diritto dell’integrazione europea, (Giappichelli 2017) 217 ss.

[14] Consorzio Italian Management e Catania Multiservizi SpA, conclusioni dell’AG Bobek, cit. par. 162.

[15] Ibid. par. 163.

[16] L’obbligo di motivazione adeguata (per il giudice di ultima istanza che non intende effettuare il rinvio) è stato già previsto nella causa C-379/15 Association France Nature Environnement ECLI:EU:C:2016:603 par. 53.

[17] Diversamente dalla giurisprudenza CILFIT, infatti, l’AG Bobek concepisce l’obbligo di rinvio come ipotesi residuale. V. Consorzio Italian Management e Catania Multiservizi SpA, conclusioni dell’AG Bobek, cit. par. 137.

[18] H Rasmussen, ‘The European Court’s Acte Clair Strategy in C.I.L.F.I.T. (Or: Acte Clair, of Course! But What does it Mean?)’ (1984) ELR 242. Non sono della stessa opinione: A Limante, ‘Recent Developments in the Acte Clair Case Law of the EU Court of Justice: Towards a more Flexible Approach’ (2016) JComMarSt 1384; T Tridimas, ‘Knocking on Heaven’s Door: Fragmentation, Efficiency and Defiance in the Preliminary Reference Procedure’ (2003) CMLR 9. In particolare, questi sostengono che le regole che consentono l’applicazione di un atto chiaro non sono ben definite e, pertanto, l’attuale criticità dei cd. criteri CILFIT consiste nel fatto che essi vengono utilizzati in maniera sempre più flessibile accrescendo così la discrezionalità del giudice a quo. Sull’impossibilità di realizzazione delle condizioni affinché possa ritenersi chiaro un atto, vedi: cause riunite C-72/14 e C-197/14 X and van Dijk ECLI:EU:C:2015:319, conclusioni dell’AG Wahl.

[19] Causa C-244/80 Foglia c. Novello ECLI:EU:C:1981:302.

[20] Ibid. par.7 e 15.

[21] Ibid. 18.

[22] Causa C-99/00 Lyckeskog ECLI:EU:C:2002:108, conclusioni dell’AG Tizzano, par. 64.

[23] Conseil d’État (Consiglio di Stato francese) sentenza del 19 giugno 1964 n. 47007 Société des pétroles Shell‑Berre, nota come la prima sentenza in cui il Conseil d’Ètat ha applicato la “teoria dell’acte clair” al diritto dell’Unione.

[24] CILFIT e a. cit. par. 16.

[25] L’esperienza italiana evidenzia taluni “esempi” di abuso della teoria dell’atto chiaro; in alcune circostanze, infatti, i giudici nazionali hanno ritenuto chiare delle disposizioni che difficilmente rispondevano a suddetto requisito, come ben emerge da M. Condinanzi, ‘I giudici italiani “avverso le cui decisioni non possa porsi un ricorso giurisdizionale di diritto interno” e il rinvio pregiudiziale’ (2010) Diritto dell’Unione europea 323.

[26] Con riferimento al parametro del “necessario raffronto tra varie versioni linguistiche”, cfr. causa Da Costa e a., cit.; con riferimento al parametro della “differenza tra nozioni giuridiche differenti tra i vari Stati membri”, cfr. CILFIT e a. cit.; con riferimento alla necessità di una interpretazione sistematica e teleologica del diritto dell’Unione, cfr. causa C-173/09 Elchinov ECLI:EU:C:2010:581 par.29, 30 e giurisprudenza ivi citata, nonché cfr. causa C-614/14 Ognyanov ECLI:EU:C:2016:514 par. 33 e giurisprudenza ivi citata.

[27] Causa C-41/11 Inter-Environnement Wallonie ECLI:EU:C:2012:103; X e van Dijk cit. par. 67.

[28] Consorzio Italian Management e Catania Multiservizi SpA, conclusioni dell’AG Bobek, cit.

[29] Ibid. par. 110.

[30] In dottrina, tuttavia, non siano mancate le critiche, su tutti: A Tizzano, ‘Note a sentenza 6 ottobre 1982 (causa 283/81); Pres. Mertens De Wilmars, Avv. gen. Capotorti (concl. parz. diff.) Soc. C.i.l.f.i.t. e altri c. Min. sanità’ (1983) Foro it., 63; M Lagrange, ‘Note a Société C.I.L.F.I.T. et Lanificio Di Gevardo S.p.a. c. Ministère de la Santè Rome’ (1983) RTDE 159; N Catalano, ‘La pericolosa teoria dell’”atto chiaro”’ (1983) Giustizia civile 12; K Lenaerts, ‘La modulation de l’obligation de renvoi préjudiciel’ (1983) Cahiers de droit européen 471. Più recentemente si veda G Tesauro, Diritto comunitario (CEDAM 1995) 210, nonché M Broberg, ‘Acte Clair revisited: Adopting the acte clair criteria to the demands of time’ (2008) 45 CMLRev 1383.

[31] Su come i cd. criteri CILFIT garantiscano in ogni caso il primato del diritto europeo in relazione alle questioni interpretative maggiormente delicate, si veda F Ferraro, ‘The Consequences of the Breach of the Duty to make Reference to ECJ for a Preliminary Ruling’ (2015) Diritto dell’Unione europea 592.

[32] Causa C-495/03 International Transports ECLI:EU:C:2005:552: in essa la Corte ha stabilito che la terza eccezione di cui alla sentenza CILFIT (acte clair) poteva ancora essere soddisfatta nonostante l’esistenza di un’interpretazione divergente del diritto dell’Unione da parte di un’autorità amministrativa di un altro Stato membro; X and van Dijk cit.: in essa la Corte ha dichiarato che l’esistenza di dubbi interpretativi da parte di un giudice di grado inferiore all’interno di uno Stato membro non osta all’esistenza di un acte clair per un giudice di ultima istanza del medesimo Stato; infine, ancora più evidenti le difficoltà oggettive nell’applicazione del criterio dell’acte clair, nella causa C-160/14 Ferreira da Silva e Brito e a. ECLI:EU:C:2015:565, in cui la Corte ha dichiarato che “il fatto che esistano decisioni contraddittorie emesse da altri giudici nazionali non può, di per sé, costituire un elemento determinante in grado di imporre l’obbligo di cui all’articolo 267, terzo comma, TFUE”.

[33] Lyckeskog, conclusioni dell’AG Tizzano, cit. par. 65.

[34] V. P De Pasquale, ‘La (finta) rivoluzione dell’avvocato generale Bobek: i criteri CILFIT nelle conclusioni alla causa C-561/19’ (2021) Diritto dell’Unione europea 12.

[35] V. B Nascimbene, ‘La mancata ratifica del Protocollo n. 16. Rinvio consultivo e rinvio pregiudiziale a confronto’ (29 gennaio 2021) Giustizia insieme www.giustiziainsieme.it; E Cannizzaro, ‘La singolare vicenda della ratifica del protocollo n. 16’ (8 dicembre 2020) Giustizia insieme www.giustiziainsieme.it; e P Biavati, ‘Giudici responsabilizzati? Note minime sulla mancata ratifica del Protocollo n. 16’ (17 dicembre 2020) Giustizia insieme www.giustiziainsieme.it. Tra le analogie, infatti, vi è senz’altro la capacità di ambedue gli istituti di rafforzare il dialogo tra corti chiarendo i profili giuridici di una data disposizione in termini tanto interpretativi quanto applicativi. A ciò, va aggiunto che sia il rinvio pregiudiziale che la richiesta di parere consultivo prospettano, almeno in linea teorica, delle questioni di interpretazione traendole da casi concreti e offrendo alle corti nazionali remittenti il potere di applicare rispettivamente la sentenza interpretativa ovvero il parere consultivo alle singole fattispecie de quibus.

[36] Un primo tratto distintivo concerne la ratio dei due istituti. In particolare, tramite il rinvio pregiudiziale si persegue l'uniforme interpretazione e applicazione del diritto dell'Unione europea; attraverso la richiesta di parere consultivo, al contrario e come evincibile tanto dal Preambolo del Protocollo n. 16 quanto dal Rapporto Esplicativo (Consiglio d’Europa, Explanatory Report to Protocol No. 16 to the Convention for the Protection of Human Rights and Fundamental Freedoms (Strasburgo, 2 novembre 2013)), si vuole “consolidare l’attuazione della Convenzione, conformemente al principio di sussidiarietà”. Un’ulteriore dissimilitudine è riscontrabile nella diversa autorità giurisdizionale legittimata a sottoporre le questioni interpretative. Segnatamente, mentre il rinvio pregiudiziale è sollevabile da qualsiasi autorità giurisdizionale nazionale, la richiesta di parere è prospettabile solo dalle più alte corti nazionali ex art. 1, par. 1, del Protocollo n. 16, coerentemente con la struttura del ricorso convenzionale e con la sua natura ispirata al gradualismo e alla sussidiarietà.

[37] Si veda, fra le opere meno recenti, P Pescatore, ‘Il rinvio pregiudiziale di cui al 177 del Trattato C.E.E. e la cooperazione fra Corte di giustizia e giudici nazionali’ (1986) Foro italiano 41-42. Le sentenze interpretative, in quanto decisioni giurisdizionali strettamente legate ai fatti concreti di causa, sono sottoposte al principio dell’efficacia inter partes. E tuttavia, avendo ad oggetto questioni giuridiche, esse implicano una portata applicativa che può trascendere il caso de quo, senza con ciò determinare alcun vincolo per i terzi. In effetti, pur non potendosi parlare di una efficacia erga omnes nel senso formale del termine, quel che si realizza è una efficacia erga omnes di tipo fattuale, dal momento che i giudici nazionali, terzi rispetto al precedente della Corte, qualora si trovino dinanzi una situazione analoga o simile, possono seguire l’interpretazione già adottata, ovvero sollevare rinvio pregiudiziale se ritengono che le questioni sottopostegli contengano aspetti nuovi o che comunque il precedente vada riconsiderato.

[38] V. G Vandersanden e A Barav, Contentieux communautaire (Bruylant 1977) 312-315; A Trabucchi, ‘L’effet erga omnes des décision préjudicelles rendues par la Cour de justice des Communautés européennes’ (1974) RTDE 56; G Floridia, ‘Forma giurisdizionale e risultato normativo del procedimento pregiudiziale davanti alla Corte di giustizia’ (1978) Diritto comunitario e degli scambi internazionali 1; P Pescatore, ‘Il rinvio pregiudiziale di cui al 177 del Trattato C.E.E. e la cooperazione fra Corte di giustizia e giudici nazionali’ cit. 26-41; A Briguglio, ‘Pregiudiziale comunitaria’ (1997) Enciclopedia giuridica Treccani 1, 13; G Bebr, ‘Preliminary Rulings of the Court of Justice: Their Authority and Temporal Effect’ (1981) CMLRev 475; F Ghera, ‘Pregiudiziale comunitaria, pregiudiziale costituzionale e valore di precedente delle sentenze interpretative della Corte di giustizia’ (2000) Giurisprudenza costituzionale 1292.

[39] V. A Rasi, ‘Sugli effetti dei pareri consultivi della Corte europea dei diritti dell’uomo’ (2021, in corso di pubblicazione) RivDirInt, la quale fonda questa conclusione sull’analisi dei due primi pareri consultivi adottati dalla Corte europea: richiesta n. P16-2018-001 (10 aprile 2019) Advisory Opinion concerning the recognition in domestic law of a legal parent-child relationship between a child born through a gestational surrogacy arrangement abroad and the intended mother requested by the French Court of Cassation; richiesta n. P16-2019-001 (29 maggio 2020) Advisory Opinion concerning the use of the “blanket reference” or “legislation by reference” technique in the definition of an offence and the standards of comparison between the criminal law in force at the time of the commission of the offence and the amended criminal law requested by the Armenian Constitutional Court.

 

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