L’effettività del cd. 'regolamento di blocco' tra coercizione straniera e libertà di impresa: la Corte di giustizia si pronuncia nel caso Bank Melli Iran

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Abstract: On 21 December 2021, the Court of Justice decided the case Bank Melli Iran v Telekom Deutschland GmbH (case C-124/20, ECLI:EU:C:2021:1035), relating to the interpretation of Regulation 2271/96 protecting against the effects of extraterritorial application of legislation adopted by a third country, better known as the “blocking regulation”. According to this Regulation, EU operators are inter alia bound to disregard the extraterritorial effects of US restrictive measures against Iran, and thus continue contractual relationship with Iranian counter-parts, irrespective of the risk of undergoing severe economic consequences under US law. In this context, the Court is required inter alia to strike a fair balance between the freedom to conduct business, including freedom of (and from) contract, as protected under art. 16 of the Charter of fundamental rights of the EU and the effectiveness of the blocking Regulation. A fundamental role, in this respect, rests on the judges of the Member States. As the Insight highlights, the case illustrates some of the main flaws in the application of the Regulation. More generally, it is pointed out that the protection afforded by the Regulation seems implemented mainly through “punitive” tools (such as direct effect and national sanctions) vis-à-vis the beneficiaries of the protection, i.e. EU operators. Also for this reason, the revision process of the blocking Regulation currently pending at EU level should be welcome, with a view to provide the EU legal system with more effective instruments to protect EU industry and citizens from the increasing pressure deriving from coercive practices and policies implemented by third countries.

Keywords: Regulation 2271/96 – blocking regulation - restrictive measures – secondary sanctions – extraterritoriality – freedom to conduct business.

I. Introduzione

Con sentenza del 21 dicembre 2021, la Grande sezione della Corte di giustizia dell’Unione europea si è pronunciata nella causa Bank Melli Iran c Telekom Deutschland GmbH,[1] avente ad oggetto l’interpretazione del regolamento (CE) n. 2271/96, noto come “regolamento di blocco” (in appresso, anche, “regolamento”).[2] La decisione  costituisce l’esito di un procedimento per rinvio pregiudiziale ex art. 267 TFUE promosso dall’Hanseatisches Oberlandesgericht Hamburg (Tribunale superiore del Land di Amburgo), nell’ambito di una controversia vertente sulla validità della risoluzione unilaterale, da parte di Telekom Deutschland GmbH, dei contratti di fornitura di servizi di telecomunicazione conclusi con Bank Melli Iran, società indicata quale destinataria delle misure restrittive imposte dagli Stati Uniti d’America in relazione al programma nucleare dell’Iran, in base all’Iran Freedom and Counter Proliferation Act del 2012 (IFCPA).[3]

La normativa americana impedisce inter alia anche agli operatori stabiliti al di fuori del territorio degli Stati Uniti, di intrattenere rapporti commerciali o di investimento con le persone indicate quali destinatarie dalle misure restrittive, in base ad un elenco redatto dall’Office of Foreign Assets Control statunitense. Tale disciplina è divenuta nuovamente applicabile agli operatori europei a partire dal 2018, in occasione cioè della decisione degli Stati Uniti di ritirarsi dal Piano d’azione congiunto globale sul nucleare iraniano (in appresso, Accordo sul nucleare), firmato nel 2015 tra il Governo di Teheran, da una parte, e i cinque membri permanenti del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, oltre a Unione europea e Germania, dall’altra parte.

Sul fronte europeo, il regolamento 2271/96 ha l’obiettivo di neutralizzare o, quanto meno, mitigare, la portata extra-territoriale delle misure restrittive in questione, vietando inter alia agli operatori europei di rispettare, eseguire o accettare gli effetti giuridici delle stesse. La disciplina è chiaramente funzionale a “liberare” tali operatori dalla coercizione che deriva dagli effetti della normativa straniera, consentendo loro il pieno esercizio delle libertà fondamentali previste nei Trattati, anche nei rapporti coi Paesi terzi.[4] Tuttavia, le imprese europee e, in modo particolare, quelle che operano anche sul mercato americano, si trovano in una situazione complessa sul piano della disciplina giuridica, che è stata ritenuta addirittura “iniqua” dall’AG Hogan, nelle sue conclusioni relative alla causa in esame.[5] Infatti, per rispettare il diritto dell’Unione europea, esse rischiano di subire importanti conseguenze economiche negative, dovute ad una condotta commerciale che, pur conforme al diritto UE, risulta in violazione del regime di misure restrittive istituito dagli Stati Uniti.

Di qui, l’esigenza di compiere un delicato bilanciamento tra il diritto fondamentale alla libertà di impresa, come tutelato agli art. 16 e 52 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (in seguito, la Carta), comprensivo della libertà di scegliere se e con chi concludere o mantenere in essere un contratto, e l’effettività del regolamento di blocco che, invece, imporrebbe alle imprese europee di ignorare l’applicazione del regime sanzionatorio americano, concludendo o mantenendo relazioni contrattuali con soggetti che pur rientrino nel suo alveo applicativo.

Giova peraltro segnalare che l’efficacia del regolamento di blocco nel contrastare gli effetti della normativa straniera che ne costituisce l’oggetto pare risultare, alla prova dei fatti, piuttosto limitata. Si consideri, ad esempio, che, a partire dal 2018, alcune grandi imprese europee hanno deciso di disinvestire in Iran e numerosi operatori finanziari europei (tra i quali la Banca europea degli investimenti e la società belga che gestisce il sistema SWIFT) rifiutano di effettuare transazioni con controparti iraniane o cessano i rapporti contrattuali con clienti di quel paese.[6] Non irrilevante appare inoltre il fatto che, a distanza di oltre 25 anni dalla sua entrata in vigore, è la prima volta che la Corte di giustizia è investita dell’interpretazione delle disposizioni del regolamento di blocco, ciò sollevando legittimi dubbi sul suo grado di effettività. Questa situazione è forse anche da attribuire ad alcuni problemi applicativi che lo caratterizzano, e che emergono inter alia dalla sentenza in commento. Su di essi intende quindi soffermarsi il presente commento, previa una sintetica illustrazione del quadro giuridico di riferimento.

II. Le misure restrittive contro l’Iran riattivate nel 2018 dagli Stati Uniti

Le misure di boicottaggio e isolamento commerciale costituiscono da tempo strumento della politica estera americana. L’IFCPA del 2012 non è che uno degli ultimi provvedimenti adottati dagli Stati Uniti nei confronti dell’Iran, a partire dall’instaurazione del regime degli Ayatollah nel 1979. La misura in questione è rivolta ad inasprire il regime sanzionatorio di cui al precedente Iran Libya Sanctions Act (ILSA) del 1996,[7] già rinnovato nei primi anni 2000 in occasione dell’avvio del programma iraniano per l’arricchimento dell’uranio.[8]

Come accennato, al fine di assicurare la massima efficacia ai divieti di intrattenere rapporti commerciali o di investimento con soggetti iraniani, questi ultimi si applicano non solo ai soggetti stabiliti sul territorio americano (cd. sanzioni primarie) ma anche a quelli stabiliti in Paesi stranieri (cd. sanzioni secondarie).[9] L’obiettivo è evidentemente quello di influenzare (in modo coercitivo) la condotta dei soggetti stranieri, al fine di renderla conforme alle priorità politiche statunitensi. Nonostante i profili di incompatibilità col diritto internazionale che tale disciplina presenta, essa raggiunge un certo grado di effettività, grazie alla forza dell’economia e del sistema finanziario americano, e al suo legame con l’economia globale. Infatti, le imprese e le banche di altri Paesi esposte ai mercati internazionali sono incentivate ad ottemperare alle misure restrittive imposte dagli Stati Uniti non solo per evitare l’applicazione diretta nei loro confronti di sanzioni amministrative o penali da parte delle competenti autorità statunitensi, ma anche per non vedersi precluso l’accesso al mercato, al capitale, alla tecnologia e al sistema finanziario degli Stati Uniti.[10]

Si badi che, in una prima fase, a partire dal 2006, l’Unione europea aveva aderito alla politica sanzionatoria nei confronti dell’Iran in relazione al programma di arricchimento dell’uranio, adottando a sua volta un proprio pacchetto di sanzioni, nel contesto peraltro di quelle adottate in seno alle Nazioni Unite.[11] Ciò non significa tuttavia che l’Unione europea accogliesse positivamente la portata extraterritoriale del regime statunitense, che è anzi sempre stata mal tollerata dai partner internazionali.[12] Con la firma dell’Accordo sul nucleare del 2015, si è provveduto a cessare l’applicazione di tale regime restrittivo (nel caso degli Stati Uniti solo parzialmente), a fronte dell’impegno dell’Iran a sottoporsi al controllo internazionale per assicurare che il programma di arricchimento dell’uranio non avvenisse per finalità belliche. Tuttavia, e come già ricordato, le sanzioni americane, e in particolar modo quelle di tipo secondario, sono state ripristinate nel 2018 dagli Stati Uniti, in occasione del ritiro degli Stati Uniti da tale accordo. [13]

III. La risposta europea: l’aggiornamento del regolamento 2271/96

Al fine di reagire a tale presa di posizione americana, e cercare di normalizzare i rapporti economici europei con l’Iran, l’Unione europea ha deciso di emendare il regolamento di blocco, estendendone l’applicazione alle sanzioni contro l’Iran appena riattivate. Come noto, la disciplina di cui al regolamento 2271/96 era stata originariamente adottata dall’allora Comunità europea per rispondere alla portata extra-territoriale delle misure restrittive adottate dagli Stati Uniti nel 1996 nei confronti di Cuba, Libia e Iran.[14] Col regolamento delegato (UE) 2018/1100, la Commissione ha modificato l’allegato del regolamento, inserendovi il riferimento all’IFCPA.[15] Parallelamente, la Commissione ha provveduto a pubblicare una nota di orientamento relativa a tale modifica.[16]

Le (contro-)misure europee di cui al regolamento di blocco si basano sui seguenti istituti: l’obbligo degli operatori europei di informare la Commissione europea qualora i loro interessi economici e/o finanziari siano lesi dagli atti normativi oggetto del regolamento di blocco (art. 2); il divieto per le autorità degli Stati membri di riconoscimento ed esecuzione delle sentenze straniere che li rendono operativi (art. 4); il divieto per gli operatori europei di ottemperare alle richieste o agli ordini di autorità straniere basati, direttamente o indirettamente, su tali atti normativi (art. 5); il diritto al risarcimento del danno causato dall’applicazione degli stessi, da far valere nei confronti delle persone fisiche o giuridiche cha direttamente o indirettamente lo hanno determinato (cd. clawback right) (art. 6). Spetta agli Stati membri stabilire le sanzioni (proporzionate, efficaci e dissuasive) per la violazione di tali disposizioni (art. 9).

Inoltre, ai sensi dell’art. 5 del regolamento, è prevista la possibilità per gli stessi di essere autorizzati a rispettare, in tutto o in parte, le disposizioni americane, qualora sussistano prove sufficienti del fatto che “la loro inosservanza può danneggiare seriamente i [loro] interessi o quelli dell’[Unione]”. La nota esplicativa della Commissione precisa che tale autorizzazione costituisce l’eccezione ad una regola che, di per sé, è suscettibile di produrre un danno all’impresa. Sicché, il danno in virtù del quale può essere rilasciata un’autorizzazione in deroga dovrebbe essere caratterizzato da un impatto particolarmente significativo per la collettività, per le relazioni bilaterali o per la sopravvivenza dell’impresa. Al riguardo, se i criteri in forza dei quali esse sono rilasciate sono oggi conoscibili in virtù della loro previsione normativa nel regolamento di esecuzione (UE) 2018/1101, resta il fatto che la Commissione non rende disponibili i dati relativi al contenuto di tali decisioni e alla percentuale di accoglimento delle relative richieste, il ché certamente non contribuisce a creare certezza giuridica per le imprese.[17]

Un commento merita infine lo strumento del risarcimento del danno a favore delle imprese europee danneggiate dalle sanzioni americane, previsto dall’art. 6 del regolamento di blocco. Esso, infatti, presenta a suo volta alcuni limiti: la disposizione che lo prevede si caratterizza per un certo grado di ambiguità testuale, non essendo chiaro se esso si applichi solo all’ipotesi di risarcimento nell’ambito di rapporti di natura civile o commerciale, come parrebbe suggerito dal riferimento all’applicabilità della Convenzione di Bruxelles del 1968 alle azioni risarcitorie in questione, ovvero anche ad altre ipotesi. In particolare, nel caso di applicazione di sanzioni secondarie, il danno ben può essere causato, e anzi generalmente lo è, direttamente da atti di enti sovrani (ossia, le competenti autorità statunitensi), il cui operato è evidentemente sottratto dall’ambito di applicazione della Convenzione di Bruxelles, oltre ad essere protetto dal regime dell’immunità degli Stati dinanzi ai giudici stranieri.[18] Sul punto, anche la menzionata nota di orientamento pubblicata dalla Commissione resta piuttosto ambigua, laddove, senza escludere la possibilità di richiedere anche tale tipologia di danno, si limita a rinviare alle decisioni del giudice competente in ordine all’individuazione del convenuto dell’azione risarcitoria.

IV. Il caso Bank Melli Iran

Venendo ad esaminare il caso oggetto del presente commento, la Bank Melli Iran (BMI) è una banca di proprietà dello Stato iraniano. La sua succursale tedesca ha concluso con una consociata della Telekom Deutschland AG (di seguito, “Telekom”), con sede in Germania, un contratto quadro per le connessioni telefoniche e internet di tutte le sedi della banca ubicate in Germania. I servizi forniti sulla base dei contratti conclusi con la Telekom sono naturalmente essenziali per le attività di BMI in Germania. Per contro, Telekom detiene importanti interessi commerciali negli Stati Uniti, dai quali proviene circa il 50% del suo fatturato complessivo.

A seguito della riattivazione delle sanzioni secondarie americane, il 16 novembre 2018, la Telekom notifica alla BMI, così come ad altre società sue clienti destinatarie delle sanzioni statunitensi, la risoluzione con effetto immediato di tutti i contratti in essere. All’esito di un procedimento sommario promosso da BMI, i giudici tedeschi dispongono la continuazione dell’esecuzione di tali contratti fino a scadenza naturale. Tuttavia, nel dicembre 2018 la Telekom comunica nuovamente a BMI la volontà di risolvere i contratti a decorrere dalla prima data utile, senza peraltro corredare tale comunicazione di alcuna motivazione.

BMI promuove quindi un’azione giudiziale volta a far condannare Telekom al mantenimento delle connessioni previste contrattualmente. I giudici di primo grado accolgono in parte il ricorso di BMI, condannando Telekom a dare esecuzione ai contratti fino alla scadenza dei termini di risoluzione ordinari. Gli stessi giudici dichiarano però che la risoluzione del contratto è conforme all’art. 5 del regolamento 2271/96, in quanto essa non è avvenuta a seguito di istruzioni, dirette o indirette, della autorità amministrative statunitensi.

Sul punto, BMI propone appello al Tribunale Superiore del Land di Amburgo, sostenendo in particolare che, benché non sussistano atti formali delle istituzioni o dei giudici americani nei confronti di Telekom, la decisione di risolvere il contratto è chiaramente dettata dall’intento di ottemperare alla disciplina statunitense e quindi contraria al regolamento di blocco. Il giudice investito del gravame si rivolge quindi alla Corte di giustizia al fine di ottenere alcune indicazioni interpretative, in ordine alle seguenti questioni: i) se l’art. 5 del regolamento di blocco si applichi in presenza solo di provvedimenti amministrativi o giudiziari, o anche di condotte volontarie dell’operatore volte a ottemperare alla normativa statunitense; ii) nel secondo caso, se il regolamento osti a una normativa nazionale che non impone alla parte che risolve un contratto in tali condizioni di motivare la risoluzione e, quindi, di dimostrare in sede giudiziale che tale risoluzione non è rivolta a ottemperare alla disciplina statunitense; iii) se una risoluzione eventualmente ritenuta contraria al regolamento di blocco vada ritenuta inefficace e, in tal caso, se l’inefficacia sia un rimedio proporzionato, con riguardo alla tutela delle libertà di impresa ai sensi degli art. 16 e 52 della Carta, in una situazione nella quale la continuazione del rapporto contrattuale con una controparte inserita nell’elenco delle sanzioni statunitensi determina il rischio di notevoli perdite economiche dell’operatore.

V. La sentenza della Corte

Sulla prima questione, la Corte ritiene che il divieto di cui all’art. 5 del regolamento si applichi anche in assenza di richieste o di istruzioni di un’autorità amministrativa o giudiziaria nei confronti dell’operatore UE. Tale interpretazione non solo deriva da elementi letterali relativi alla formulazione ampia della disposizione, ma è anche in linea con le finalità del regolamento.[19] Esso si prefigge infatti di proteggere l’ordinamento giuridico dell’Unione, nonché gli interessi dell’Unione e delle persone fisiche o giuridiche che esercitano i loro diritti in base al TFUE, anche nei rapporti coi Paesi terzi.[20] La disciplina del regolamento si giustifica in tal senso sulla base della considerazione secondo la quale gli atti normativi stranieri che ne sono oggetto, in ragione della loro portata extra-territoriale, non solo violano il diritto internazionale ma ostacolano il perseguimento degli obiettivi propri del sistema giuridico comunitario. Donde, la necessità di impedirne gli effetti attraverso un’interpretazione ampia del divieto di cui al sopra menzionato art. 5.

Venendo alla seconda questione, essa riguarda la sussistenza di un obbligo di motivazione di una risoluzione contrattuale adottata in circostanze analoghe a quelle in esame, quale corollario del divieto di cui all’art. 5 del regolamento. Infatti, nell’ambito della controversia pendente dinanzi al giudice del rinvio, BMI sostiene che una risoluzione priva di motivazione si porrebbe in contrasto con il divieto di cui al menzionato art. 5 del regolamento. Preliminarmente, la Corte si occupa di stabilire se l’art. 5 regolamento sia una norma dotata di effetti diretti, e possa quindi essere invocata direttamente dinanzi la giudice nazionale al fine di far valere l’inefficacia della risoluzione contrattuale. Al riguardo, la Corte ritiene che il divieto di cui al menzionato art. 5 sia chiaro, preciso e incondizionato, oltre ad essere contenuto in un atto (il regolamento) che è dotato di diretta applicabilità ex art. 288 TFUE. Nessun dubbio quindi che la norma in questione sia idonea a produrre effetti diretti nei giudizi interni. Sotto questo profilo, condivisibile appare anche la considerazione secondo la quale una disposizione quale l’art. 9 del regolamento, che affida agli Stati membri il compito di decidere le sanzioni in caso di violazione delle sue disposizioni, non possa di per sé inficiare l’effetto diretto del divieto di cui all’art. 5 dello stesso. Proprio tale effetto diretto costituisce infatti lo strumento primario per assicurare effettività alle sue norme.

Ciò premesso, la Corte non può che prendere atto del fatto che nessuna disposizione del regolamento impone un obbligo di motivazione all’operatore che decida di interrompere un rapporto contrattuale con un soggetto colpito dal regime sanzionatorio straniero. Sicché, la normativa tedesca non presenta, sotto questo profilo, elementi problematici. Tuttavia, la Corte ritiene che, in assenza di motivazione, qualora “tutti gli elementi di prova a disposizione del giudice nazionale tendano ad indicare prima facie che, con la risoluzione dei contratti in questione, una persona [omissis] priva di autorizzazione a tal fine [omissis] ha rispettato gli atti normativi elencati, spetta a quest’ultima persona dimostrare in modo giuridicamente sufficiente, che la sua condotta non era finalizzata al rispetto di detti atti normativi”.

Se quindi un obbligo di motivazione non è previsto, in fase giudiziale opera, tuttavia, ai sensi dell’interpretazione qui decisa dalla Corte, l’inversione dell’onere della prova a carico dell’impresa convenuta, in ordine alle ragioni della risoluzione. Ciò in particolare poiché gli elementi di prova rilevanti non sono generalmente disponibili a soggetti diversi dall’autore della risoluzione e, quindi, una diversa ripartizione dell’onere probatorio, come nella specie era prevista dal diritto nazionale applicabile, rischierebbe di rendere inefficace il divieto di cui al menzionato art. 5.

Naturalmente, l’inversione dell’onere della prova può riverberare i suoi effetti sull’opportunità, se non altro ad probationem, di fornire alla controparte, già in fase di risoluzione o recesso dal contratto, una motivazione volta ad escludere la volontà dell’impresa di rispettare il regime restrittivo straniero. Al riguardo, pare possibile per le imprese invocare motivazioni oggettive di ordine commerciale, ma anche di compliance regolatoria (ad esempio con riferimento alla normativa anti-terrorismo o anti-riciclaggio) per giustificare il recesso o la risoluzione da un contratto con una controparte iraniana, fermo il compito del giudice nazionale di verificare la veridicità dei motivi.[21] Per contro, non è chiaro se una motivazione basata sulle conseguenze economiche che l’impresa subirebbe in caso di continuazione del rapporto, a causa delle sanzioni primarie o secondarie imposte dagli USA, possa ritenersi compatibile con le finalità del regolamento e rendere quindi legittima la risoluzione del contratto. Se tale giustificazione era stata accolta in passato da alcune corti nazionali degli Stati membri,[22] oggi, con la riattivazione del regolamento di blocco proprio rispetto alle sanzioni in questione, ciò appare più problematico e, anzi, va probabilmente escluso.[23]

A questo riguardo, tuttavia, centrale diviene la terza questione pregiudiziale, relativa alla conformità della sanzione della nullità della risoluzione con la tutela della libertà di impresa di cui all’art. 16 della Carta. Infatti, se le conseguenze economiche derivanti dall’applicazione delle sanzioni statunitensi all’impresa non dovrebbero in linea di principio consentire alle imprese europee di liberarsi dei rapporti contrattuali incriminati, pena la violazione del regolamento di blocco, la Corte ritiene anche che, nel caso concreto, spetti al giudice nazionale verificare se la continuazione del rapporto costituisca una limitazione proporzionata alla libertà fondamentale di impresa tutelata dalla Carta.

Nella specie, l’art. 134 del codice civile tedesco prevedeva il rimedio della nullità della risoluzione, in quanto posta in essere in violazione di un obbligo di legge.[24] La libertà d’impresa sancita dall’articolo 16 della Carta comprende, per consolidata giurisprudenza, e inter alia, “la libertà contrattuale” inclusa, in particolare “la libera scelta della controparte economica”.[25] Tuttavia, come noto, la libertà d’impresa non costituisce una prerogativa assoluta, bensì può essere soggetta a limitazioni stabilite nell’interesse generale, in considerazione della sua funzione nella società e degli altri interessi tutelati dall’ordinamento giuridico.[26] Ciò a condizione che tali limitazioni siano previste dalla legge, rispettino il contenuto essenziale della libertà e siano proporzionate all’obiettivo di interesse generale che le giustificano (v. art. 52 Carta).

Sotto questo profilo, la Corte ritiene che l’interesse generale perseguito dal regolamento di blocco possa giustificare una limitazione dell’attività di impresa, tale limitazione derivando dalla legge. Inoltre, il divieto di cui all’art. 5 del regolamento, unitamente alla sanzione dell’annullamento di una risoluzione contrattuale ad esso contraria, non priva l’impresa della facoltà di far valere i propri interessi in un contratto, ma limita i suoi poteri con esclusivo riferimento ai casi in cui essi sono esercitati in violazione del predetto art. 5. Sicché, tale limitazione rispetta, in astratto, il contenuto essenziale della libertà.[27]

Spetta però al giudice nazionale la valutazione relativa alla proporzionalità della limitazione in concreto: esso deve infatti verificare, alla luce degli obiettivi del regolamento, l’entità delle conseguenze ulteriori subite dall’impresa a causa dell’impossibilità di porre fine ai suoi rapporti commerciali con entità iraniane, con particolare riferimento alle sanzioni applicabili nei suoi confronti da parte degli Stati Uniti e alle ulteriori perdite economiche che possano conseguirne. Tale passaggio è fondamentale, perché introduce un elemento di flessibilità nel divieto di cui all’art. 5 del regolamento, che consente un certo margine di apprezzamento al giudice nazionale e, di riflesso, alle imprese. Il giudice nazionale, nel valutare la condotta dell’impresa, dovrà tenere conto anche della circostanza secondo la quale essa non abbia fatto ricorso al meccanismo di autorizzazione preventiva ex art. 5, par. 2 del regolamento.

A quest’ultimo proposito, peraltro, laddove il rilascio di tali autorizzazioni avvenga in termini particolarmente restrittivi da parte della Commissione, o divenga estremamente aleatorio (in termini di costi e tempi), anche a causa delle possibili opposizioni in sede giurisdizionale da parte delle controparti iraniane,[28] l’impresa potrebbe essere disincentivata dal richiederlo, anche in ragione delle incertezze circa le conseguenze di un diniego dell’autorizzazione. Preferibile potrebbe allora essere, per l’impresa, auto-valutare la proporzionalità della cessazione del rapporto rispetto alle conseguenze economiche di una scelta diversa, nella consapevolezza che tale decisione potrebbe essere sottoposta al controllo di legittimità, peraltro eventuale, da parte del giudice nazionale. In questo caso, fermo restando che solo l'autorizzazione ex art. 5 è idonea a garantire certezza giuridica al comportamento dell’impresa, il rischio è che si generi una competizione tra i due rimedi. Ciò a maggior ragione allorché i giudici nazionali si dimostrassero più propensi della Commissione a legittimare le scelte dell’impresa, in ragione della limitazione imposta dal regolamento ad un diritto fondamentale della stessa.

Per contro, poiché sia la decisione della Commissione ex art. 5 del regolamento sia la valutazione del giudice nazionale circa la proporzionalità della limitazione da esso derivante incidono sull’applicazione di un diritto fondamentale previsto nella Carta, al quale entrambi gli organi sono vincolati ai sensi del suo art. 51, le rispettive valutazioni dovrebbero tendere a convergere nei risultati, pena una disparità di trattamento tra le imprese.

VI. Rilievi conclusivi

Il caso esaminato mette in luce due principali problemi connessi all’applicazione del regolamento di blocco: il primo è quello relativo alla difficoltà di intercettare e sanzionare le condotte vietate, essendo la loro qualificazione rimessa all’esistenza di un elemento soggettivo (la volontà di ottemperare alla normativa oggetto del blocco), in mancanza del quale la condotta dell’impresa, benché oggettivamente “sospetta”, non può qualificarsi come illegittima. Tale problematica pregiudica chiaramente sia il public sia il private enforcement delle disposizioni in questione e, quindi, l’effettività della disciplina stessa.[29] Si spiega forse così, almeno in parte, il livello tutto sommato elevato di compliance delle imprese europee al regime sanzionatorio statunitense.

Il secondo riguarda le incertezze relative al regime delle autorizzazioni rilasciate dalla Commissione ex art. 5, la cui stessa previsione normativa pare denunciare una debolezza intrinseca della disciplina, laddove sembrerebbe confermare che, in mancanza di paralleli strumenti di sostegno all’attività economica delle imprese europee, l’applicazione del regolamento rischia di non fornire una tutela appropriata dei loro interessi economici. A ciò si aggiungano le ambiguità intercorrenti tra lo strumento in questione e il ruolo del giudice nazionale nell’applicazione diretta dell’art. 5 del regolamento, delle quali si è detto supra, sez. V.

Più in generale, si può osservare che l’intento protettivo del regolamento parrebbe attuato, per lo più, attraverso strumenti che operano in termini punitivi nei confronti dei soggetti che dovrebbero beneficiare della sua disciplina. Ciò avviene con riferimento al diritto delle controparti iraniane di invocare l’effetto diretto dell’art. 5 del regolamento nei confronti dell’operatore europeo, cui fa eco il diritto delle medesime controparti straniere di impugnare la decisione di autorizzazione della Commissione ex art. 5 del regolamento, si sensi dell’art. 263 TFUE. Lo stesso può dirsi con riferimento al regime sanzionatorio che gli Stati membri dovrebbero applicare nei confronti degli operatori europei che non ottemperano al regolamento. E’ certo che si tratta di strumenti previsti a tutela dell’effettività del diritto dell’Unione che da esso scaturisce. Tuttavia, la sensazione è quella che proprio i meccanismi in esso previsti meritino qualche forma di ripensamento. Non è un caso, allora, se il legislatore ha, opportunamente, messo allo studio una sua revisione, al fine di rafforzarne l’effettività e l’efficacia.[30] Vero è che la sua utilità rispetto ai rapporti commerciali con l’Iran potrebbe essere posta nel nulla dal raggiungimento di un nuovo accordo sul nucleare tra gli ex partner, reso più plausibile, almeno sino allo scoppio della guerra tra Russia e Ucraina, dall’avvento dell’Amministrazione Biden. Tale modifica si inserisce però nel quadro di una serie di iniziative rivolte a contrastare la coercizione che, in un mondo sempre più multipolare e conflittuale, viene posta in essere, con vari strumenti, da parte di Stati stranieri, nei confronti dell’industria europea, al di fuori di una cornice giuridica multilaterale condivisa. Sicché, il lavoro di revisione merita certamente di essere continuato e concluso, per dotare l’ordinamento europeo di uno strumento di carattere generale che possa essere prontamente attivato nei vari scenari che si presenteranno in futuro, garantendo al tempo stesso che l’effettività del diritto UE si accompagni con un‘adeguata garanzia dei diritti (e degli interessi) fondamentali delle imprese e dei cittadini europei.

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European Papers, Vol. 7, 2022, No 2, European Forum, Insight of 30 July 2022, pp. 561-572
ISSN 2499-8249 - doi: 10.15166/2499-8249/578

* Professore associato di diritto dell’Unione europea, Università degli studi di Genova, chiara.cellerino@unige.it.

[1] Causa C-124/20 Telekom Deutschland GmbH c Bank Melli Iran ECLI:EU:C:2021:1035.

[2] Regolamento (CE) n. 2271/96 del Consiglio del 22 novembre 1996 relativo alla protezione dagli effetti extraterritoriali derivanti dall’applicazione di una normativa adottata da un paese terzo, e dalle azioni su di essa basate o da essa derivanti, come modificato dal regolamento (UE) n. 37/2014 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 15 gennaio 2014 e dal regolamento delegato (UE) 2018/1100 della Commissione, del 6 giugno 2018, che modifica l’allegato del regolamento n. 2271/96.

[3] Public Law 112-239, 2 gennaio 2013.

[4] L’azione dell’Unione, laddove non sufficiente, può accompagnarsi all’azione degli Stati membri, in forza dell’azione comune 96/668/PESC del 22 novembre 1996 relativo a misure di protezione dagli effetti extraterritoriali derivanti dall'applicazione di una normativa, adottata da un paese terzo, e dalle azioni su di essa basate o da essa derivanti.

[5] Causa C-124/20 Bank Melli Iran c Telekom Deutschland GmbH ECLI:EU:C:2021:386, conclusioni dell’AG Hogan par. 5.

[6] K Katzman, ‘Iran Sanctions’ (2 febbraio 2022) Congressional Research Service crsreports.congress.gov 43 ss.; sulla prassi applicativa del regolamento si veda la esauriente analisi di T Ruys e C Ryngaert, ‘Secondary Sanctions: A Weapon Out of Control? The International Legality of, and European Responses to, US Secondary Sanctions’ (2020) British Yearbook of International Law 6. L’inefficacia del regolamento di blocco rispetto alla condotta degli istituti finanziari è attribuita alla struttura stessa del mercato finanziario globale, che è sistemicamente collegato ed esposto al sistema finanziario americano e alle transazioni in dollari, cfr. M Sossai, ‘Legality of Extra-territorial Sanctions’ in M Asada (ed), Economic Sanctions in International Law and Practice (Routledge 2020) 62.

[7] Public Law 104–172, 5 agosto 1996.

[8] Public Law 107-24, 3 agosto 2001 e Public Law 109-293, 30 settembre 2006, che ne trasforma la denominazione in Iran Sanctions Act (ISA), con la cessazione delle sanzioni alla Libia. Per una ricostruzione dell’evoluzione normativa in questione, K Katzman, ‘The Iran Sanctions Act (ISA)’ (12 ottobre 2007) Congressional Research Service sgp.fas.org.

[9] In questo senso, le cd. sanzioni secondarie coincidono con le sanzioni cd. extra-territoriali, ossia applicate a imprese stabilite fuori dagli Stati Uniti, cfr. T Ruys e C Ryngaert, ‘Secondary Sanctions’ cit. 6, il quale dà però atto dell’esistenza in letteratura di una definizione più circoscritta di sanzioni secondarie, limitata cioè alle sanzioni privative di accesso al mercato americano alle imprese straniere, con esclusione quindi delle misure che implicano l’applicazione di sanzioni amministrative o penali a tali imprese, le quali sarebbero basate su un territorial link, benchè attenuato, che consentirebbe di qualificarle come sanzioni primarie.

[10] Su questi aspetti, T Ruys e C Ryngaert, ‘Secondary Sanctions’ cit. 11-12; L Lionello, ‘La reazione europea alle sanzioni secondarie degli Stati Uniti: cosa non ha funzionato nel caso dell’Iran?’ (2019) Rivista del commercio internazionale 483; con stampo più pratico, EJ Krauland e A Rapa, ‘Between Scylla and Charybdis: Identifying and Managing Secondary Sanctions Risks Arising from Commercial Relationship with Iran’ (2014) Business Law International 3. Particolarmente problematiche per gli effetti a catena che si generano a valle sono le misure restrittive rivolte agli istituti finanziari europei che effettuano transazioni relative a rapporti commerciali di imprese europee con imprese iraniane. Le banche europee esposte sui mercati internazionali tendono infatti a negare la disponibilità ad effettuare tali transazioni con corrispondenti banche iraniane, per non subire conseguenze sulla piazza finanziaria americana, ciò determinando gravi ostacoli alle imprese europee che mantengono rapporti commerciali con l’Iran. Cfr., ad esempio, L Cavestri, ‘Iran, come evitare le sanzioni USA alle imprese’ (12 maggio 2018) Il Sole 24 ore www.ilsole24ore.com.

[11] Cfr., oggi, regolamento (UE) n. 267/2012 del Consiglio, del 23 marzo 2012, concernente misure restrittive nei confronti dell’Iran e che abroga il regolamento (UE) n. 961/2010.

[12] M Sossai, ‘Legality’ cit. 70.

[13] Executive Order 13846, Reimposing Certain Sanctions with Respect to Iran, 6 agosto 2018.

[14]  Public Law 104-114, 110 Stat. 785 (1996), Cuban Liberty and Democratic Solidarity (Libertad) Act; Public Law 104-172, 110 Stat. 1541 (1996), Iran and Lybia Sanctions Act. In materia, D De Falco, ‘The Cuban Liberty and Democratic Solidarity (LIBERTAD) Act of 1996: Is the United States Reaching Too Far?’ (1997) J Int'l Legal Studies 125; J Huber, ‘The Helms Burton Blocking Statute of the European Union’ (1996) Fordham International Law Journal 699 ss; A Lang, ‘Le reazioni comunitarie alla legge americana Helms-Burton’ (1996) Il Diritto dell’Unione europea 1119. Al tempo, l’adozione del regolamento aveva innescato un negoziato che portò ad una soluzione diplomatica della contrapposizione tra Stati Uniti e allora Comunità europea.

[15] Regolamento delegato (UE) 2018/1100 della Commissione, del 6 giugno 2018, che modifica l'allegato del regolamento (CE) n. 2271/96 del Consiglio, relativo alla protezione dagli effetti extraterritoriali derivanti dall'applicazione di una normativa adottata da un paese terzo, e dalle azioni su di essa basate o da essa derivanti

[16] Commissione europea, Nota di orientamento del 7 agosto 2018. Domande e risposte: adozione dell'aggiornamento del regolamento di blocco.

[17] Cfr. T Ruys e C Ryngaert, ‘Secondary Sanctions’ cit., 87. L’elenco non esaustivo dei criteri che la Commissione può utilizzare ai fini del rilascio di tali autorizzazioni sono indicati nel regolamento di esecuzione (UE) 2018/1101 della Commissione del 3 agosto 2018 che stabilisce i criteri di applicazione dell'articolo 5, secondo comma, del regolamento (CE) n. 2271/96 del Consiglio relativo alla protezione dagli effetti extraterritoriali derivanti dall'applicazione di una normativa adottata da un paese terzo, e dalle azioni su di essa basate o da essa derivanti, art. 4.

[18] T Ruys e C Ryngaert, ‘Secondary Sanctions’ cit. 96, 97.

[19] L’art. 5 del regolamento di blocco vieta alle imprese europee di “rispettare, direttamente o attraverso una consociata o altro intermediario, attivamente o per omissione deliberata, richieste o divieti, comprese le richieste di tribunali stranieri, basate o derivanti, direttamente o indirettamente, dagli atti normativi indicati nell’allegato o da azioni su di essi basate o da essi derivanti”.

[20] Cfr. considerando n. 2 e n. 6 regolamento 2271/96, cit.

[21] Bank Melli Iran, conclusioni dell’AG Hogan cit., par. 98.

[22] In senso diverso si sono pronunciati i giudici italiani, in due procedimenti nazionali ove si è ordinato alle banche l’esecuzione di transazioni con controparti iraniane, in ottemperanza al regolamento di blocco. Cfr. Report from the Commission COM(2021) 535 to the European Parliament and the Council relating to Article 7(a) of Council Regulation (EC) No 2271/96 (‘Blocking Statute’).

[23] In questi termini anche Bank Melli Iran, conclusioni dell’AG Hogan cit., punto 98.

[24] A norma di tale disposizione nazionale, “qualsiasi atto giuridico contrario ad un divieto disposto per legge è nullo salvo che la legge non disponga diversamente”.

[25] Bank Melli Iran cit. par. 78, 79. In tema anche causa C-798/18 Federazione nazionale delle imprese elettrotecniche ed elettroniche (Anie) e a. ECLI:EU:C:2021:280 par. 57; causa C‑134/15 Lidl ECLI:EU:C:2016:498 par. 27.

[26] Causa C‑277/16 Polkomtel c Prezes ECLI:EU:C:2017:989 par. 50; causa C‑101/12 Herbert Schaible c Land Baden ECLI:EU:C:2013:661 par. 60; causa C‑283/11 Sky Österreich ECLI: ECLI:EU:C:2013:28 par. 48.

[27] Bank Melli Iran cit. par. 87-88. V. in tema anche causa C‑201/15 AGET Iraklis c Ypourgo Ergesias ECLI:EU:C:2016:972 par. 87.

[28] La decisione di rilascio di un’autorizzazione è stata oggetto di impugnazione, con riferimento alla legittimità della procedura, nel ricorso proposto il 10 gennaio 2021, causa T-8/21 IFIC Holding c Commissione pendente.

[29] A quanto consta, la casistica di applicazione di sanzioni da parte delle autorità degli Stati membri per violazione del regolamento è limitatissima. Meno infrequente, ma comunque problematica, è l’applicazione incidentale del regolamento nel contesto di controversie tra privati, ovvero nella negoziazione tra le parti di clausole contrattuali volte a gestire il rischio dell’applicazione della sanzioni americane, ad esempio nel settore assicurativo, cfr. T Ruys e C Ryngaert, ‘Secondary Sanctions’ cit. 88.

[30] Tale intento è stato annunciato nella comunicazione della Commissione COM(2021) 32 del 29 gennaio 2021 Il sistema economico e finanziario europeo: promuovere l’apertura, la forza e la resilienza. La relativa consultazione pubblica si è conclusa il 4 novembre 2021, i risultati sono disponibili su ec.europa.eu.

 

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