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Abstract: The present Insight is an attempt to shed light on the Court’s findings in its Vera Egenberger judgment of 17 April 2018 (case C-414/16). For the first time, the Court interprets Art. 4, para. 2, of Directive 2000/78/EC, providing some important clarifications. Indeed, Art. 4, para. 2, establishes an exception to the general principle of non-discrimination when a person’s religion or belief constitutes a genuine, legitimate and justified occupational requirement. However, its undetermined formulation has allowed Member States to interpret it very broadly, on account of the right to self-determination of Churches and religious organizations. The Court affirms the importance of judicial scrutiny over employment decisions by religious organizations, which has to be carried out by balancing the different rights and interests at stake (i.e. Art. 10 and 21 of the Charter of Fundamental Rights of the European Union). More than a decade after Mangold and Kücükdeveci judgments, the Court of Justice also confirms its case-law on the direct effect of the general principle of non-discrimination.
Keywords: Directive 2000/78/EC – discrimination on grounds of religion and personal beliefs – genuine, legitimate, justified requirement – judicial scrutiny – balancing – direct effect.
I. La discriminazione religiosa nella procedura di assunzione da parte di un datore di lavoro confessionale
Con procedimento ai sensi dell’art. 267 TFUE, il Bundersarbeitsgericht (Corte federale del lavoro tedesca) ha sottoposto alla Corte di giustizia una domanda di pronuncia pregiudiziale relativa all’interpretazione dell’art. 4, par. 2, della direttiva 2000/78, che stabilisce un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di lavoro.[1]
Nel caso che qui si commenta, la vicenda alla base del procedimento principale rappresenta una novità nell’ambito della giurisprudenza della Corte di giustizia, non trattandosi di una discriminazione intervenuta in una procedura di licenziamento, ma nella procedura di assunzione di una candidata.[2] Effettivamente, anche quest’ultimo profilo rientra nel campo di applicazione della direttiva (trattando essa stessa di condizioni d’accesso e di occupazione al lavoro). Fino ad ora, però, la Corte se ne è occupata nel caso Feryn NV, ove ha colto un effetto potenziale della discriminazione – ossia ancora prima che fosse attivata la procedura di assunzione – nelle dichiarazioni pubblicamente rese dal datore di lavoro di non voler assumere dipendenti aventi una determinata origine etnica o razziale, dissuadendo, così, determinati candidati dal presentare le proprie candidature.[3]
La controversia pendente dinnanzi alla Corte federale tedesca del lavoro verte, invece, sulla richiesta di risarcimento proposta dalla sig.ra Vera Egenberger, la quale asserisce di essere stata vittima di una discriminazione sulla base della religione a procedura d’assunzione già avanzata da parte di un datore di lavoro confessionale. In particolare, la ricorrente ha risposto ad un’offerta di lavoro pubblicata dalla Evangelisches Werk (organizzazione della Chiesa evangelica tedesca) per un progetto concernente la stesura di una relazione sulla Convenzione internazionale delle Nazioni Unite sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione razziale, ma è poi stata esclusa dalla seconda fase della selezione in ragione della sua non adesione ad alcuna confessione religiosa.[4]
Dal canto suo, la resistente ritiene giustificata la – pacifica – disparità di trattamento sulla base della religione ai sensi della normativa nazionale (art. 9, par. 1, della Legge sulla parità di trattamento, AGG) conforme al diritto di autodeterminazione della Chiesa (art. 140 della Legge fondamentale della Repubblica Federale Tedesca, GG) in combinato disposto con la disposizione che prevede la libertà di religione (art. 137 della Costituzione di Weimar).[5] Nel trasporre l’art. 4, par. 2, della direttiva 2000/78 attraverso l’art. 9, par. 1, AGG il legislatore tedesco pare aver riconosciuto al datore di lavoro confessionale ampio margine di manovra alla luce del privilegio di autodeterminazione delle chiese.
In questo quadro, il giudice a quo ha ritenuto indispensabile chiedere alla Corte di giustizia di pronunciarsi sull’art. 4, par. 2, della direttiva 2000/78, per comprendere se la suddetta disposizione debba essere interpretata nel senso che una Chiesa o un’organizzazione la cui etica è fondata sulla religione o sulle convinzioni personali, nel procedere ad un’assunzione, possa essa stessa determinare, in via definitiva, le attività professionali con riferimento alle quali la religione costituisce, per la natura dell’attività ovvero in ragione del contesto nel quale venga espletata, un requisito essenziale, legittimo e giustificato per lo svolgimento dell’attività lavorativa, tenuto conto dell’etica di tale Chiesa o organizzazione.[6] La complessità di formulazione dell’art. 4 della direttiva 2000/78/CE e la genericità del suo secondo paragrafo non chiariscono quale sia effettivamente il margine concesso alle organizzazioni di tendenza nel porre in essere differenze di trattamento fondate sulla religione o su convinzioni personali, in materia di lavoro. Di conseguenza, questa incertezza interpretativa di fondo ha indotto il giudice a quo a domandarsi fino a che punto l’esercizio del diritto di autonomia delle Chiese, anche ai sensi dell’art. 17 TFUE,[7] possa giustificare il sacrificio di libertà fondamentali riconosciute in capo ad ogni individuo, come la libertà di religione ed il principio di non discriminazione.[8]
La sentenza Vera Egenberger rileva altresì sotto ulteriori profili.
In primis, il carattere innovativo della sentenza si coglie nell’interpretazione che la Corte fornisce del secondo paragrafo dell’art. 4 della direttiva in questione, in relazione alle caratteristiche che devono essere stabilite come requisito essenziale, legittimo e giustificato per lo svolgimento dell’attività lavorativa nel rispetto dell’identità dell’organizzazione confessionale e del diritto all’autodeterminazione delle Chiese.
In secondo luogo, per il fatto che la Corte si inserisce nel solco del tracciato giurisprudenziale sulla diretta efficacia del principio generale di non discriminazione, inaugurato con le sentenze Mangold e Kücükdeveci, laddove è chiamata a pronunciarsi sulla necessità o meno per il giudice nazionale di disapplicare la normativa interna non suscettibile di essere interpretata in conformità con la direttiva europea.
Con l’intenzione di fornire una chiave di lettura della recente pronuncia della Corte, appare opportuno soffermarsi, dapprima, sui problemi che l’art. 4 della direttiva 2000/78 pone (sez. II), per poi procedere con la trattazione delle questioni sottoposte alla Corte, nonché dei caratteri di novità e di continuità che la sentenza stessa presenta (sez. III, IV, V), per terminare, infine, con alcune considerazioni all’indomani della pronuncia Vera Egeberger (sez. VI).
II. I problemi posti dall’art. 4 della direttiva 2000/78
La direttiva 2000/78 fornisce un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro.[9] L’appartenenza o meno ad una confessione religiosa è considerata elemento sulla base del quale è vietata ogni forma di discriminazione, diretta o indiretta (art. 2). Cionondimeno, la religione rappresenta altresì una caratteristica idonea ad imporre eccezioni alla disciplina generale del diritto del lavoro e all’applicazione del diritto antidiscriminatorio, proprio in forza della peculiare natura confessionale del datore di lavoro. In particolare, l’art. 4 interviene derogando al contenuto del principio generale di non discriminazione, autorizzando gli Stati membri a stabilire una differenza di trattamento basata sui c.d. genuine occupational requirements o bona fide occupational qualifications essenziali e determinanti per lo svolgimento di un’attività, purché la finalità sia legittima ed il requisito proporzionato.[10]
Il secondo paragrafo dell’art. 4 introduce, poi, un regime derogatorio speciale nei confronti delle “chiese e delle altre organizzazioni pubbliche o private la cui etica è fondata sulla religione o sulle convinzioni personali” (c.d. organizzazioni di tendenza). La suddetta disposizione prevede che gli Stati membri siano autorizzati a mantenere disposizioni legislative vigenti alla data di adozione della direttiva o ad introdurre, successivamente alla data di adozione della medesima, una legislazione che recepisca la prassi vigente a tale data, che sia volta a non considerare discriminatorie quelle differenze di trattamento fondate sulla religione o sulle convinzioni personali dei prestatori di lavoro, allorquando, per la natura dell’attività espletata ed in ragione del contesto in cui detta attività sia svolta, la religione o le convinzioni personali rappresentino un “requisito essenziale, legittimo e giustificato per lo svolgimento dell’attività lavorativa, tenuto conto dell’etica dell’organizzazione”.
La dottrina si interroga sulla complessa articolazione dell’art. 4, apparentemente semplice – ove non ridondante –[11] e sui rapporti tra il primo ed il secondo paragrafo. Alcuni interpretano tale secondo paragrafo come contenente deroghe maggiormente favorevoli alle organizzazioni di tendenza rispetto alla disciplina di carattere generale contenuta al primo paragrafo del medesimo articolo; secondo altri, invece, le disposizioni successive al primo paragrafo dell’art. 4 si caratterizzerebbero per prescrizioni maggiormente restrittive per le organizzazioni di tendenza rispetto a quanto previsto in via generale dal primo paragrafo.[12]
Sulla scorta di questi diversi indirizzi interpretativi elaborati dalla dottrina, è più agevole comprendere i numerosi interrogativi che la suddetta norma pone,[13] in particolare in relazione ai limiti all’esenzione dal divieto di discriminazione concesso alle organizzazioni di tendenza, anche considerando la mancanza di un esplicito riferimento, nel secondo paragrafo dell’articolo, al principio di proporzionalità.
Il rischio derivante da un’interpretazione eccessivamente favorevole alle organizzazioni di tendenza si annida nella possibilità concreta per gli Stati membri di concedere al datore di lavoro confessionale l’opportunità di porre in essere differenze di trattamento fondate sulla religione o sulle convinzioni personali dei prestatori di lavoro ben più ampie di quanto giustificherebbero la natura e il contesto in cui tali attività vengano espletate, tenuto conto dell’etica dell’organizzazione stessa. Siffatta interpretazione comporterebbe, peraltro, il sacrificio gravoso di diritti fondamentali, quali la libertà di religione ed il principio di non discriminazione, che, costituendo principi generali, sono tutelati dall’ordinamento giuridico dell’Unione.[14]
La sentenza Vera Egenberger cerca, pertanto, di fare luce sugli aspetti controversi sinora prospettati.
III. Il sindacato giurisdizionale sui provvedimenti confessionali in materia di lavoro
Il primo quesito interpretativo è relativo alla sindacabilità delle decisioni datoriali quando adottate da un datore di lavoro confessionale alla luce degli art. 9, par. 1, AGG e 4, par. 2, della direttiva 2000/78.[15] In altri termini, il giudice a quo ha domandato alla Corte di stabilire se l’art. 4, par. 2, della direttiva 2000/78 possa essere interpretato nel senso che un datore di lavoro confessionale possa autonomamente definire in maniera vincolante se, per la natura dell’attività lavorativa e per il contesto in cui viene espletata, la religione di un candidato costituisca quel requisito “essenziale, legittimo e giustificato” per lo svolgimento della medesima, “tenuto conto dell’etica dell’organizzazione”. Un tale quesito non sorprende, se si considera che la trasposizione nel contesto dell’ordinamento tedesco della disposizione della direttiva ha circoscritto la sindacabilità dei provvedimenti delle organizzazioni confessionali in materia di lavoro ad un mero controllo di plausibilità, sottraendola, così, ad un sindacato giurisdizionale effettivo e, conseguentemente, riconoscendo ai soggetti datoriali c.d. “di tendenza” un ampio potere di autodeterminazione.[16] A conferma di ciò, la Commissione europea aveva già manifestato la propria preoccupazione per la trasposizione del secondo paragrafo dell’art. 4 attraverso l’art. 9, par. 1, AGG, per il fatto che questa norma avrebbe consentito ad un’organizzazione religiosa di definire i requisiti occupazionali sulla base del proprio diritto di autonomia, non rispettando la ratio perseguita dalla direttiva, né tantomeno operando una valutazione anche in termini di proporzionalità di tali requisiti.[17]
La risposta della Corte di giustizia al primo quesito pare aver eliminato ogni dubbio sulla necessità di un sindacato effettivo sulle suddette decisioni. D’altra parte, sarebbe stato singolare se la Corte fosse addivenuta alla soluzione opposta, lasciando spazio a potenziali abusi da parte di autorità non indipendenti che godessero di piena autonomia nel porre in essere differenze di trattamento di questo tenore.
Orbene, la Corte constata che se si limitasse il controllo del rispetto dei criteri di cui all’art. 4, par. 2, al mero scrutinio di un’autorità non indipendente ovvero alla piena autonomia della Chiesa, lo si svuoterebbe di significato. Da un lato, infatti, la direttiva 2000/78, stabilendo un quadro generale per la lotta alle discriminazioni al fine di rendere effettivo negli Stati membri il principio della parità di trattamento, concretizza il principio generale di non discriminazione contenuto all’art. 21 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea; dall’altro, il secondo paragrafo dell’art. 4 intende altresì tenere conto dell’autonomia delle Chiese e delle organizzazioni come sancito agli art. 17 TFUE e 10 della stessa Carta. Di conseguenza, la Corte ritiene che l’art. 4, par. 2, della direttiva 2000/78 miri a garantire un bilanciamento tra il diritto all’autonomia delle Chiese e delle organizzazioni e il diritto dei lavoratori a non essere discriminati in ragione della religione o delle convinzioni personali. Il bilanciamento deve poter essere oggetto, se del caso, di un sindacato giurisdizionale effettivo da parte di un’autorità indipendente e, in ultimo, di un giudice nazionale, al fine di assicurare che siano soddisfatti i criteri previsti all’art. 4, par. 2.[18]
Nell’ottica di un parallelismo interpretativo, a questo punto appare opportuno richiamare l’orientamento della Corte europea dei diritti dell’uomo (la Corte europea) sul tema in oggetto. Ancorché in un quadro giuridico differente, anche la Corte europea, nel pronunciarsi sulla legittimità delle limitazioni imposte ad un diritto garantito dalla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), non ritiene soddisfacente il carattere sufficientemente plausibile dell’interesse contrapposto, pretendendo, al contrario, che l’essenzialità e proporzionalità del sacrificio imposto al diritto individuale sia accuratamente valutato.
Sebbene nei casi Sindicatul Pastorul,[19] Obst,[20] Siebenhaar,[21] Fernandez Martinez,[22] la Corte sia addivenuta a risultati opposti rispetto a quelli raggiunti nelle pronunce Lombardi Vallauri[23] e Schuth,[24] ritenendo soltanto in questi ultimi che gli Stati non abbiano fornito adeguata protezione ai sensi dei diritti garantiti dalla CEDU ai prestatori di lavoro interessati, lo ha tuttavia fatto muovendo da un presupposto unico, vale a dire dalla necessità di un controllo giurisdizionale effettivo – e non di un mero controllo di plausibilità – da parte dei giudici nazionali sulla legittimità di limitazioni imposte ai diritti garantiti dalla CEDU.
Dal canto suo, anche la Corte di giustizia ritiene imprescindibile, in caso di controversia, il sindacato giurisdizionale sulle scelte operate dal datore di lavoro confessionale, al fine di verificare il corretto bilanciamento tra il diritto all’autodeterminazione delle chiese e il diritto dei lavoratori di non essere oggetto di discriminazioni. Con una tale impostazione, la Corte di giustizia assicura la necessaria coerenza tra l’interpretazione dei diritti garantiti dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (ad esempio i summenzionati art. 10 e 21) e, ove corrispondenti ai diritti garantiti dalla CEDU (come gli art. 9 e 14), l’interpretazione di questi ultimi offerta dalla Corte europea.[25]
IV. I limiti all’esenzione dal divieto di discriminazione sulla base della religione
Il terzo nodo interpretativo – che la Corte esamina prima del secondo – riguarda i criteri che si devono accertare caso per caso per comprendere se, tenuto conto dell’etica della Chiesa o dell’organizzazione in questione, la religione o le convinzioni personali, tenuto conto della natura dell’attività o del contesto in cui venga espletata, costituiscano un requisito essenziale, legittimo e giustificato per lo svolgimento della suddetta attività.[26]
A tal proposito, la Corte indica che gli Stati e le loro autorità, come quelle giurisdizionali, pur dovendosi astenere dal valutare la legittimità dell’etica della Chiesa o dell’organizzazione di cui si tratta, devono, ciononostante, garantire che il diritto dei lavoratori alla non discriminazione venga rispettato.[27] L’esame dei criteri di cui all’art. 4, par. 2, della direttiva 2000/78 diventa quindi essenziale a tal fine.
In questo contesto, la Corte approda ad un’interpretazione rigorosa dei requisiti che giustificherebbero una disparità di trattamento. Innanzitutto, il carattere “essenziale” del requisito comporta che l’adesione ad un determinato credo o alle convinzioni personali di una Chiesa sia necessaria a causa dell’importanza della stessa attività al fine dell’affermazione dell’etica della Chiesa o dell’esercizio del proprio diritto d’autonomia da parte di quest’ultima. La “legittimità” del requisito implica, invece, che esso venga utilizzato per un fine che non sia estraneo a tale etica. Infine, il carattere “giustificato” del requisito implica non solo la necessità di un sindacato giurisdizionale sullo stesso, ma che il datore di lavoro che impone un tale requisito abbia altresì l’obbligo di dimostrare la probabilità e serietà del presunto rischio di lesione per la sua etica o il suo diritto all’autonomia.[28]
Siffatta interpretazione riecheggia una precedente soluzione della Corte di giustizia,[29] laddove, sebbene in un contesto differente, aveva dichiarato che, ai sensi dell’art. 6, par. 1, della direttiva 2000/78, gli Stati membri possono porre in essere disparità di trattamento allorquando esse siano “oggettivamente e ragionevolmente giustificate da una finalità legittima e i mezzi per il conseguimento di tale finalità siano appropriati e necessari”.[30] Vieppiù, anche nella lettura dell’art. 4, par. 2, fornita nella pronuncia qui esaminata, la Corte sopperisce alla mancanza di riferimento espresso nella disposizione stessa della direttiva al principio di proporzionalità, ribadendo che tale principio rientra, peraltro, tra quelli generali dell’ordinamento dell’Unione europea.[31] Di conseguenza, i giudici nazionali devono verificare se il requisito di cui all’art. 4, par. 2, sia appropriato e non vada al di là di quanto è necessario a conseguire l’obiettivo perseguito.[32]
Così interpretato, il requisito che giustifica una disparità di trattamento sembrerebbe quasi avvalorare la tesi della dottrina che propende per una lettura limitativa e non particolarmente favorevole dei poteri riconosciuti alle organizzazioni di tendenza dalla deroga di cui all’art. 4, par. 2, della direttiva.[33] Sembrerebbe, dunque, superata la differente interpretazione di una cospicua parte della dottrina secondo la quale l’art. 4, par. 2, costituirebbe una deroga particolarmente favorevole a quella tipologia di datore di lavoro.[34]
In conclusione, la presente pronuncia ha finalmente ancorato la deroga di cui all’art. 4, par. 2, della direttiva 2000/78 al principio di proporzionalità, nel tentativo di evitare abusi del diritto di autonomia delle Chiese ed organizzazioni confessionali. Rimangono, tuttavia, ulteriori interrogativi.
In particolare, la Corte non specifica se, nel valutare la natura ed il contesto dell’attività lavorativa in questione, le mansioni che in concreto svolge un lavoratore abbiano o meno rilevanza al fine di determinare la sussistenza, nel caso in questione, di una discriminazione. A titolo comparatistico, se si prende in considerazione la giurisprudenza italiana, è possibile distinguere tra la c.d. impostazione dualistica, secondo la quale la posizione dell’ufficiale ecclesiastico è distinta da quella degli altri lavoratori, e quella monistica, che è contraria a tale distinzione.[35]
Così, secondo la prima impostazione sarebbe più logico giustificare una disparità di trattamento imposta dall’organizzazione confessionale datrice di lavoro nei confronti dell’ufficiale ecclesiastico o di coloro che contribuiscono, nello svolgimento delle loro mansioni, alla proclamazione e divulgazione dei principi fondanti l’etica della Chiesa, rispetto agli altri prestatori che svolgono mansioni non direttamente correlate alla missione dell’organizzazione confessionale. Se, per contro, si suffragasse l’impostazione monistica, si potrebbe correre il rischio di assecondare un sacrificio sproporzionato dei diritti dei lavoratori delle organizzazioni confessionali.
V. Dalle sentenze Mangold e Kücükdeveci a Vera Egenberger: la disapplicazione delle disposizioni nazionali difformi
L’ultima questione sottoposta alla Corte attiene, poi, all’obbligo per il giudice nazionale, nell’ambito di una controversia tra privati, di disapplicare una disposizione nazionale che non possa essere interpretata in modo conforme all’art. 4, par. 2, della direttiva 2000/78.
La Corte ha costantemente affermato che le disposizioni di una direttiva non dispiegano efficacia diretta tra parti private, ovvero non sono suscettibili di creare obblighi in capo ad un privato e, di conseguenza, non possono essere fatte valere nei suoi confronti.[36] Resta, tuttavia, l’obbligo per il giudice di uno Stato membro di conseguire il risultato contemplato dalla direttiva, privilegiando l’interpretazione del proprio diritto interno alla luce della lettera e dello scopo della direttiva stessa.[37] Cionondimeno, laddove il giudice nazionale non possa addivenire ad un’interpretazione conforme perché ciò condurrebbe ad un risultato contra legem, si pone la questione se una disposizione nazionale contraria al diritto dell’Unione debba essere disapplicata.[38] Per sciogliere questo nodo, la Corte è intervenuta dichiarando che, nell’ambito di controversie tra privati, ove il giudice nazionale si trovasse nell’impossibilità di interpretare una norma di diritto interno in conformità con l’art. 4, par. 2, della direttiva, egli sarebbe tenuto a disapplicare la disposizione interna difforme.[39]
In altri termini, nell’ambito di controversie tra privati la Corte non àncora il presupposto della disapplicazione all’efficacia diretta di una direttiva, ma trae questa conseguenza dall’efficacia diretta del principio generale di non discriminazione. Di talché, la pronuncia qui esaminata si colloca all’interno del filone giurisprudenziale inaugurato dalle sentenze Mangold e Kükükdeveci.[40] In quei casi, la Corte aveva rilevato il contrasto tra la norma interna e quella di diritto dell’Unione non sulla base della direttiva, ma sulla base del principio generale di non discriminazione in ragione dell’età,[41] che – in quanto principio generale e inderogabile dell’Unione – dispiega efficacia diretta, imponendosi al legislatore nazionale in quanto tale.[42] Nella pronuncia qui esaminata, la Corte adotta un approccio simile, prevedendo che il giudice nazionale, investito di una controversia tra privati, ove si trovasse nell’impossibilità di interpretare il diritto nazionale vigente in maniera conforme all’art. 4, par. 2, della direttiva 2000/78, sarebbe tenuto ad assicurare la tutela giuridica spettante ai singoli in forza del principio di non discriminazione sulla base della religione o delle convinzioni personali, consacrato nell’art. 21 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea. In quanto principio generale dell’Unione,[43] esso riveste infatti carattere imperativo ed è di per sé sufficiente a conferire ai singoli un diritto invocabile in quanto tale nell’ambito di una controversia che li vede contrapposti in un settore disciplinato dal diritto derivato dell’Unione.[44] Di conseguenza, il giudice nazionale è tenuto a garantirne la piena efficacia disapplicando, ove necessario, le disposizioni di diritto interno non conformi.[45]
VI. Osservazioni conclusive
Di particolare interesse, specialmente in dottrina, è la pronuncia della Corte di giustizia sul terzo quesito interpretativo, al fine di delimitare i confini alquanto indeterminati dell’art. 4, par. 2, della Direttiva 2000/78, che prevede un regime derogatorio al generale divieto di discriminazione religiosa in materia di lavoro.
Invero, la complessa formulazione di alcune disposizioni della direttiva poteva far apparire il secondo paragrafo come una mera ed inutile specificazione del generale art. 4; d’altra parte, l’appartenenza alla confessione religiosa ovvero l’adesione ad una determinata ideologia potrebbero di per sé rappresentare legittimi requisiti occupazionali alle condizioni stabilite dall’art. 4.[46] Ciò premesso, è evidente che il procedimento pregiudiziale attivato dalla Corte federale tedesca del lavoro ha fornito un’opportunità imperdibile che la Corte non si è lasciata sfuggire.
Dalla lettura che la Corte offre dell’art. 4, par. 2, della Direttiva sembrerebbe ora smentita l’opinione di parte della dottrina italiana, che intravedeva nella deroga contenuta nella suddetta disposizione una concessione particolarmente favorevole ai datori di lavoro confessionale.[47] Invero, la sentenza è approdata ad un’interpretazione alquanto rigorosa, ove non restrittiva, del requisito “essenziale, legittimo, giustificato” che giustificherebbe una disparità di trattamento in materia di lavoro, ancorché posta da un’organizzazione di tendenza confessionale. In questo contesto, rimane tuttavia ancora una questione da approfondire. In particolare, la Corte, attribuendo una certa rilevanza alla natura dell’attività lavorativa ed al contesto in cui essa deve espletarsi, al fine di valutare i criteri di cui al secondo paragrafo della disposizione in esame, non ha espressamente precisato se le mansioni espletate dal prestatore di lavoro possano essere un parametro dirimente in tal senso. L’interpretazione restrittiva che emerge nella pronuncia qui in discorso potrebbe far propendere per una risposta affermativa a tale quesito. Se così fosse, siffatta interpretazione parrebbe essere maggiormente favorevole all’impostazione dualistica sviluppata dalla giurisprudenza italiana, secondo la quale una disparità di trattamento sarebbe tanto più giustificata quanto più le mansioni svolte dal lavoratore fossero assimilabili a quelle tipiche dell’ufficiale ecclesiastico, non anche a quelle di altri lavoratori dipendenti di organizzazioni confessionali.
In questo senso, si è espressa anche la giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo nei casi Vallauri, Obst e Schüths, ritenendo giustificato il licenziamento quando il lavoratore risulta chiaramente essere un ufficiale ecclesiastico ovvero arrivando a soluzioni opposte laddove il lavoratore, pur espletando mansioni assimilabili a quelle di un esponente della chiesa, con le proprie scelte personali non aveva tuttavia pregiudicato la posizione della Chiesa agli occhi dell’opinione pubblica.[48] Similmente, la Corte europea ha recentemente deciso il caso Fernández Martínez, utilizzando come principale argomento la natura della funzione svolta dal ricorrente, che gli avrebbe richiesto – in quanto sacerdote – un obbligo di fedeltà maggiore nei confronti dei princìpi della Chiesa di appartenenza.[49]
Alla luce della sentenza Vera Egenberger, non è, tuttavia, dato comprendere quale sia la posizione della Corte di giustizia sul punto; potrebbe, cionondimeno, immaginarsi un adeguamento all’orientamento giurisprudenziale sviluppato in seno alla Corte europea anche su questo tema, sempre in un’ottica di coerenza interpretativa dei diritti garantiti dalla Carta, ancorché corrispondenti a quelli tutelati dalla CEDU.
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European Papers, Vol. 3, 2018, No 2, European Forum, Insight of 15 October 2018, pp. 897-909
ISSN 2499-8249 - doi: 10.15166/2499-8249/242
* Laureata in giurisprudenza, tirocinante presso il Tribunale di Torino, elisabetta.garello@gmail.com.
[1] Corte di giustizia, sentenza del 17 aprile 2018, causa C- 414/16, Vera Egenberger. Direttiva 2000/78/CE del Consiglio del 27 novembre 2000 che stabilisce un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro.
[2] Corte di giustizia: sentenza del 11 settembre 2018, C-68/17, IR; sentenza del 14 marzo 2017, causa C-157/15, Achbita e sentenza del 14 marzo 2017, causa C-188/15, Bougnaoui e ADDH. Corte di giustizia: sentenza del 11 aprile 2013, cause riunite C-335/11 e C-337/11, HK Danmark; sentenza del 12 ottobre 2010, causa C-499/08, Ingeniørforeningen i Denmark; sentenza del 11 luglio 2006, causa C-13/05, Chacón Navas.
[3] Corte di giustizia, sentenza del 10 luglio 2008, causa C-54/07, Feryn NV, par. 25. Si vedano anche i precedenti rappresentati da Corte di giustizia: sentenza del 19 aprile 2016, causa C-441/14, Dansk Industri (DI); ADDH, cit.; sentenza del 1 dicembre 2016, causa C- 397/15, Mohamed Daouidi; sentenza del 10 maggio 2011, causa C-147/08, Jurgen Römer; sentenza del 19 maggio 2010, causa C-555/07, Kücükdeveci; sentenza del 22 maggio 2005, causa C-144/04, Mangold.
[4] Per la definizione di discriminazione diretta, si veda art. 2, par. 2, della direttiva 2000/78/CE.
[5] L’AGG mira a trasporre nel diritto interno la direttiva 2000/78 e, in particolare, l’art. 4, para 2, della direttiva, ritenendo giustificata una disparità di trattamento qualora la religione costituisca un requisito giustificato (non anche essenziale e legittimo), sotto il profilo del diritto delle Chiese all’autodeterminazione.
[6] Vera Egenberger, cit., par. 42. Per un approfondimento sulle c.d. organizzazioni di tendenza, si veda, tra gli altri, A. Viscomi, Osservazioni critiche sul lavoro e “tendenza” nelle fonti internazionali e comunitarie, in Lavoro e Diritto, 2003, p. 582; M.P. Aimo, Le discriminazioni basate sulla religione e sulle convinzioni personali, in Barbera, Il nuovo diritto antidiscriminatorio, Milano: Giuffrè, 2007, p. 65.
[7] Clausola di salvaguardia dello status riconosciuto dal diritto ecclesiastico nazionale alle confessioni religiose, tutelandolo così da eventuali ingerenze nel medesimo da parte del diritto dell’Unione. Ex multis, F. Margiotta Broglio, M. Orlandi, Articolo 17 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea, in A. Tizzano (a cura di), Trattati dell’Unione Europea, Milano: Giuffré, 2014, p. 454 et seq.; D. Durisotto, Istituzioni europee e libertà religiosa: CEDU e UE tra processi di integrazione europea e rispetto delle specificità nazionali, Napoli: Edizioni scientifiche italiane, 2016, p. 301 et seq.; M. Ventura, L’Articolo 17 TFUE come fondamento del diritto e della politica ecclesiastica dell’unione europea, in Quaderni di Diritto e Politica. Ecclesiastica, 2014, p. 293 et seq.; S. Montesano, Brevi riflessioni sull’articolo 17 Tfue e sul progetto di direttiva del consiglio recante disposizioni in materia di divieto di discriminazione, in Stato, chiese e pluralismo confessionale, 25 maggio 2015, www.statoechiese.it; A. Licastro, Unione Europea e “status” delle confessioni religiose, Milano: Giuffré, 2014, p. 143.
[8] In tema di discriminazione religiosa sul luogo di lavoro, S. O. Chaib, European Court of Justice Keeps the Door to Religious Discrimination in the Private Workplace Opened. The European Court of Human Rights Could Close it, in Strasbourg Observers, 27 March 2017, strasbourgobservers.com; M. Bell, Leaving Religion at the Door? The European Court of Justice and Religious Symbols in the Workplace, in Human Rights Law Review, 2017, pp. 784-796; S. Hennette-Vauchez, Equality and the Market: the unhappy fate of religious discrimination in Europe, in European Constitutional Law Review, 2017, pp. 744-758. E. Howard, Islamic headscarves and the CJEU: Achbita and Bougnaoui, in Maastricht Journal of European and Comparative Law, 2017, p. 357 et seq.; L. Salvadego, Il divieto per i dipendenti di imprese private di esibire simboli religiosi all’esame della Corte di giustizia dell’ Unione europea, in Rivista di diritto internazionale, 2017, pp. 808-826. R. Bin, Il velo svelato, in European Papers, 2017, Vol. 2, No 1, www.europeanpapers.eu, pp. 457-460.
[9] L. Waddington, Future Prospects for Eu Equality Law: Lessons to Be Learnt for the Proposed Equal Treatment Directive, in European Law Review, 2010, p. 163 et seq.; R. Blanpain, European Labour Law, Alphen aan den Rijn: Kluwer Law International, 2012, pp. 477-480; J. Kenner, European Employment Law: From Rome to Amsterdam and Beyond, Oxford, Portland: Hart, 2003, p. 416 et seq. e p. 524 et seq.; D. Schieck, L. Waddington, M. Bell, Cases, Materials and Texts on National, Supranational and International Non-discrimination law, Oxford: Hart, 2003.
[10] Art. 4, par. 1, della direttiva 2000/78: “Fatto salvo l’articolo 2, paragrafi 1 e 2, gli Stati membri possono stabilire che una differenza di trattamento basata su una caratteristica correlata ad uno qualunque dei morivi di cui all’art. 1 non costituisca discriminazione, laddove, per la natura dell’attività lavorativa o per il contesto in cui essa viene espletata, tale caratteristica costituisca un requisito essenziale e determinante per lo svolgimento dell’attività lavorativa, purché l’attività sia legittima e il requisito proporzionato”. M.P. Aimo, Le Discriminazioni basate sulla religione e sulle convinzioni personali, cit., p. 61 et seq.
[11] Il paragrafo 2 dell’art. 4 potrebbe di primo acchito sembrare la pedissequa ripetizione del contenuto del primo paragrafo, ma ciò non è.
[12] G. Arrigo, Diritto del lavoro dell’Unione europea. Parte generale, Varazze: PM Edizioni, 2018, pp. 312-320; M. Corti, Diritto dell’Unione europea e “status” delle confessioni religiose: profili lavoristici, cit., p. 11 et seq.; P. Bellocchi, Pluralismo religioso, discriminazioni ideologiche e diritto del lavoro, in Argomenti di diritto del lavoro, 2003, pp. 189-190; A. Viscomi, Osservazioni critiche sul lavoro e “tendenza” nelle fonti internazionali e comunitarie, cit., p. 396 e pp. 398-399; A. Licastro, Quando è l’abito a fare il lavoratore. La questione del velo Islamico, tra libertà di manifestazione della religione ed esigenze dell’impresa, in Stato, chiese e pluralismo confessionale, 22 settembre 2015, pp. 8-12, www.statoechiese.it. Di parere contrario, invece, P. Chieco, Le nuove direttive comunitarie sul divieto di discriminazione, in Rivista italiana di diritto del lavoro, 2002, p. 75 et seq.
[13] M.P. Aimo, Le discriminazioni basate sulla religione e sulle convinzioni personali, cit., p. 68.
[14] Art. 10 e 21 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea. G. Strozzi, R. Mastroianni, Diritto dell’Unione europea. Parte istituzionale, Torino: Giappichelli, 2013, pp. 234-236 e 246-254; G. Campeis, A. De Pauli, Carte e Corti europee, diritti fondamentali e giustizia italiana, Torino: Giappichelli, 2014, p. 23-28 e 63-67.
[15] Vera Egenberger, cit., par. 41.
[16] Conclusioni dell’AG Tanchev presentate il 9 novembre 2017, causa C-414/16, Vera Egenberger.
[17] Procedura d’infrazione della Commissione europea n. 2007/2362.
[18] Vera Egenberger, cit., par. 51 e 55. Tale principio è stato recentemente confermato dalla Corte stessa nella sentenza IR, cit., par. 43 et seq.
[19] Corte europea dei diritti umani, sentenza del 9 luglio 2013, n. 2330/09, Sindicatul Pastorul Cel Bun c. Romania, par. 159.
[20] Corte europea dei diritti umani, sentenza del 23 settembre 2010, n. 425/03, Obst c. Germania, par. 48-52.
[21] Corte europea dei diritti umani, sentenza del 3 febbraio 2011, n. 18136/02, Siebenhaar c. Germania, par. 45-48.
[22] Corte europea dei diritti umani, sentenza del 12 giugno 2014, n. 56030/07, Fernandez Martinez c. Spagna, p. 131.
[23] Corte europea dei diritti umani, sentenza del 20 ottobre 2009, n. 39128/05, Lombardi Vallauri c. Italia, par. 71-72.
[24] Corte europea dei diritti umani, sentenza del 23 settembre 2010, n. 1620/03 Schüth c. Germania, cit., par. 67-70; par. 74-75.
[25] Art. 52, par. 3, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea.
[26] Vera Egenberger, cit., par. 60.
[27] Ibid., par. 61. La Corte stessa richiama la pronuncia Férnandez Marìnez c. Spagna, cit., par. 129.
[28] Vera Egenberger, cit., par-5-67.
[29] Mangold, cit.
[30] Ibid., par. 58. Tale impostazione pare un adagio consueto della Corte sul principio di proporzionalità.
[31] Corte di giustizia: sentenza del 6 marzo 2014, causa C-206/13, Siragusa, par. 34; sentenza del 9 luglio 2015, causa C-153/14, K e A, par. 51.
[32] Vera Egenberger, cit., par. 69.
[33] P. Chieco, Le nuove direttive comunitarie sul divieto di discriminazione, cit., p. 75 et seq.
[34] M.P. Aimo, Le discriminazioni basate sulla religione e sulle convinzioni personali, cit., p. 65 et seq.; M. Corti, Diritto dell’Unione europea e “status” delle confessioni religiose: profili lavoristici, cit., p. 11 et seq.; P. Bellocchi, Pluralismo religioso, discriminazioni ideologiche e diritto del lavoro, cit., pp. 189-190; A. Viscomi, Osservazioni critiche sul lavoro e “tendenza” nelle fonti internazionali e comunitarie, cit., p. 396 e pp. 398-399; F. Onida, Il problema delle organizzazioni di tendenza nella direttiva 2000/78/CE attuativa dell’art. 13 del Trattato sull’UE, in Diritto ecclesiastico, 2001, p. 912 et seq.
[35] A suffragio della prima impostazione, si veda Corte di cassazione: sentenza del 6 novembre 2001, n. 13721; sentenza del 8 luglio 1997, n. 6191; sentenza del 16 giugno 1994, n. 5832. Per l’impostazione monistica, Corte di cassazione: sentenza del 16 settembre 1998, n. 9237; sentenza del 21 novembre 1991, n. 12530.
[36] Corte di giustizia: sentenza del 26 febbraio 1986, causa C-152/84, Marshall, par. 48; sentenza del 13 novembre 1990, causa C-106/89, Marleasing SA, par. 6.
[37] Onde conseguire il risultato fissato dalla direttiva e conformarsi all’art. 288, par. 3, TFUE. Si veda la giurisprudenza della Corte sul punto, come Corte di giustizia: sentenza del 10 aprile 1984, causa C-14/83, Colson e Kamann, par. 26; Marleasing, cit., par. 7; sentenza del 5 ottobre 2004, causa C- 397/01, Pfeiffer, par. 113-115; sentenza del 4 luglio 2006, causa C-212/04, Adelener et al., par. 124; sentenza del 24 gennaio 2012, causa C-282/10, Dominguez, par. 24; sentenza del 24 maggio 2012, causa C-97/11, Amia, par. 28; DI, cit., par. 30; sentenza del 8 novembre 2016, causa C-554/14, Ognyanov (II), par. 58-59; sentenza del 29 giugno 2017, causa C-579/15, Popławski, par. 35.
[38] Corte di giustizia, sentenza del 15 aprile 2008, causa C-268/06, Impact, par. 100; DI, cit., par. 31 e 32; Ognyanov (II), cit., par. 66.
[39] Vera Egerberger, cit., par. 72. Sul rapporto tra interpretazione conforme ed efficacia diretta, si veda G. Betlem, The Doctrine of Consistent Interpretation – Managing Legal Uncertainty, in Oxford Journal of Legal Studies, 2002, p. 397 et seq.; M. Dougan, When Worlds Collide: Competing Visions of the Relationship between Direct Effect and Supremacy, in Common Market Law Review, 2007, p. 931 et seq.
[40] Sull’efficacia diretta dei principi generali dell’ordinamento dell’Unione europea. Mangold, cit., par. 74-76; Kücükdeveci, cit., par. 20-21 e 27; Römer, cit., par. 59; Daouidi, cit., par. 62; Association de médiation sociale, cit., par. 47. Corte di giustizia, sentenza del 8 dicembre 2005, Commissione europea c. Irlanda, par. 57-61. Corte di giustizia: sentenza del 30 giugno 2016, causa C-202/15, DGRF, par. 23; sentenza del 6 ottobre 2015, causa C-650/13, Thierry Delvigne, par. 25 e 26; sentenza del 27 marzo 2014, causa C- 265/13, E. T. Marcos, par. 28 e 29.
[41] In tema di discirminazione sulla base dell’età, E. Miur, Of Ages in – and Edges of – EU Law, in Common Market Law Review, 2011, p. 39 et seq., pp. 57-59; D. Schieck, Age Discrimination Before the ECJ – Conceptual and Theoretical Issues, in Common Market Law Review, 2011, pp. 777-799; M. Sargeant, The Law on Age Discrimination in the Eu, Alphen aan den Rijn: Kluwer law international, 2008, p. 11 et seq.
[42] M. Cartabria, Dieci casi sui diritti in Europa, Bologna: Il Mulino, 2011, p. 134 et seq.; M. De Mol, Kücükdeveci: Mangold Revisisted – Horizontal Direct Effect of a General Principle of Eu Law, in European Constitutional Law Review, 2010, pp. 293-308; M. Safjan, P. Miklaszewicz, Horizontal Effect of the General Principles of EU law in the Sphere of Private Law, in European Review of Private Law, 2010, p. 475 et seq.; F. Fontanelli, General Principles of EU Law and a Glimpse of Solidarity in the Aftermath of Mangold and Kücükdeveci, in European Public Law, 2011, p. 225 et seq.; D. Schieck, Age Discrimination before the ECJ – Conceptual and Theoretical Issues, in Common Market Law Review, 2011, pp.777-799.
[43] Art. 6, par. 3, TUE. Per un approfondimento, T. Tridimas, The General Principles of Eu Law, Oxford: Oxford University Press, 2006; T. Papadopoulos, Criticizing the Horizontal Direct Effect of the EU General Principle of Equality, in European Human Rights Law Review, 2011, p. 437 et seq.
[44] Vera Egerberger, cit., par. 76; Association de médiation sociale, cit., par. 47.
[45] Vera Egerberger, cit., par. 82. Sulla scorta di questa pronuncia, la Corte ha confermato tale principio e l’applicabilità diretta orizzontale della relativa disposizione della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea nella recente sentenza IR, cit., par. 69-70.
[46] M.P. Aimo, Le discriminazioni basate sulla religione e sulle convinzioni personali, cit., pp. 66-67.
[47] Supra, sezione II.
[48] Valluri c. Italia, cit.; Obst c. Germania, cit.; Schüths c. Germania, cit.
[49] Fernández Martínez c. Spagna, cit.