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Abstract: It has already been made clear in case-law that a European Union measure – including a decision approving an international agreement – may have a dual substantive legal basis. This is necessary wherever the measure simultaneously pursues a number of objectives, or has several components, which are linked to each other, without one being incidental to the other, so that various provisions of the Treaty are equally applicable. However, a combination of CFSP and other external policies legal basis’ is difficult because of the diverging decision-making procedures and instruments. This contribution analyses the Court’s approach to competence and choice of legal basis in the context of the agreement EU-Tanzania and argues that, in order to avoid the problems related to such a dual legal basis, the Court has rejected its normal “aim and content” legal bases reasoning. It also examines the implications of the judgment for the role of the European Parliament in the procedure for the conclusion of an international agreement.
Keywords: CJEU – interpillar agreements – substantive legal basis – CFSP – European Parliament – procedure for the conclusion of an international agreement.
I. Premessa
Con la sentenza del 14 giugno 2016, resa nel caso Parlamento c. Consiglio,[1] la Corte di giustizia dell’Unione europea è stata indirettamente chiamata a pronunciarsi sul ruolo che spetta al Parlamento europeo (PE) nella conclusione di accordi internazionali ai sensi dell’art. 218, par. 6, TFUE. Gli argomenti utilizzati e le soluzioni, in parte inedite, forniscono l’opportunità di riflettere, ancora una volta, sulla difficoltà di assegnare un ruolo al PE nell’iter di conclusione di accordi allorché questi, oltre che vertere su aspetti relativi alle politiche materiali, riguardino anche la politica estera e di sicurezza comune (PESC).
È noto che l’art. 218, par. 6, TFUE impone la partecipazione del Parlamento nella conclusione di accordi che non riguardino “esclusivamente” la PESC. Sulla base di un’interpretazione letterale di questa previsione, il PE dovrebbe dunque partecipare – nella forma impegnativa dell’approvazione, ovvero della consultazione – anche alla conclusione di accordi aventi un contenuto prevalente di politica estera, pur se, come è noto, nella formazione di atti interni di politica estera il ruolo parlamentare è assolutamente marginale. Dato che la politica estera si concreta, nella massima parte dei casi, in atti che hanno qualche contenuto materiale (relativo, ad es., alla cooperazione allo sviluppo, all’aiuto umanitario, ecc.), ancorché di rilievo funzionale alla realizzazione di obiettivi politici, la disposizione avrebbe l’effetto di imporre la partecipazione parlamentare per accordi il cui contenuto ricada, sia pure in maniera marginale, in una qualsiasi politica materiale interna. In questa prospettiva, il PE si troverebbe dunque ad esercitare sul piano esterno funzioni che, in ambito PESC, gli sono invece precluse sul piano interno.
Proprio al fine di evitare l’incongruità di una tale situazione, questa asimmetria è stata corretta sulla base di un’interpretazione restrittiva dell’art. 218, par. 6, TFUE. Nella oramai nota sentenza sul caso dell’accordo con Mauritius,[2] la Corte di giustizia dell’UE ha indicato che “è la base giuridica sostanziale di un atto a determinare le procedure da seguire per l’adozione del medesimo”.[3] Ne deriva che se “la decisione di conclusione dell’accordo in questione è validamente fondata soltanto su una base giuridica sostanziale rientrante nell’ambito della PESC, risulta applicabile il tipo di procedura previsto dall’articolo 218, par. 6, secondo comma, frase iniziale, TFUE”,[4] con esclusione quindi del Parlamento dall’iter decisionale.
La Corte, nel fondare dunque la sua soluzione su una rigorosa applicazione dei principi giurisprudenziali sulla base giuridica anche riguardo alla conclusione di accordi internazionali, ha ripristinato il collegamento tra base giuridica sostanziale e procedura decisionale. Questa operazione ha chiaramente avuto l’effetto di ristabilire, in materia di PESC, un rapporto di simmetria tra la procedura di adozione di atti e la procedura di conclusione di accordi internazionali; essa, tuttavia, non ha risolto il problema della partecipazione del PE all’iter di conclusione degli accordi, ma lo ha, appunto, spostato sul piano della scelta della base giuridica sostanziale.
II. Base giuridica sostanziale e cumulo di basi giuridiche PESC e TFUE
Coerentemente con l’approccio abbracciato nella sentenza sul caso Mauritius, sembra logico ritenere che i principi generali relativi alla base giuridica debbano ora trovare integrale applicazione anche rispetto ad accordi che riguardano la PESC; questa conclusione era invece stata esclusa dalla Corte nel quadro normativo antecedente al Trattato di Lisbona.[5]
Da una parte, allora, gli accordi andrebbero conclusi sulla base della politica “prevalente” qualora sia possibile accertare in maniera obiettiva che le finalità e il contenuto dell’accordo rilevino in maniera principale di una sola politica, sia essa la politica estera ovvero una politica materiale. Dall’altra, il concorso paritetico nello stesso accordo di disposizioni relative a diverse politiche dovrebbe invece imporre il cumulo delle relative basi giuridiche pur qualora fra esse vi sia quella relativa alla PESC. L’applicazione di questi principi dovrebbe quindi condurre a concludere che la partecipazione del Parlamento si imponga qualora un accordo di politica estera contenga clausole rilevanti di un’altra delle politiche materiali dell’Unione aventi un rilievo tale da imporre l’utilizzo di una base giuridica congiunta.
L’impiego della doppia base giuridica non appare tuttavia privo di inconvenienti. Ancorché nella sentenza sul caso Mauritius la Corte non abbia affrontato la questione, un ostacolo che appare difficilmente sormontabile al fine dell’utilizzo del cumulo di basi giuridiche è costituito dalla persistente diversità delle procedure decisionali previste rispettivamente in ambito TFUE e PESC. Benché la Corte non abbia sempre offerto criteri univoci per stabilire quando due procedure debbano essere considerate incompatibili,[6] la giurisprudenza è concorde nel ritenere, in generale, che il cumulo di basi giuridiche debba essere escluso quando abbia l’effetto di determinare un’alterazione della posizione delle istituzioni coinvolte nel processo decisionale.[7]
Alla luce della radicale diversità delle procedure decisionali PESC rispetto a quelle previste negli altri settori di competenza dell’Unione, le posizioni delle istituzioni coinvolte, in particolare del Parlamento europeo e del Consiglio, potrebbero subire un’alterazione. Solo per evocare i principali elementi di differenziazione, basti ricordare che il processo decisionale nel quadro della PESC continua a caratterizzarsi non solo per il potere decisionale riservato al solo Consiglio, il quale lo esercita quasi esclusivamente all’unanimità,[8] ma soprattutto per il ruolo marginale che caratterizza la partecipazione della Commissione – che non svolge alcun ruolo d’iniziativa – e del Parlamento europeo – per il quale non è prevista alcuna forma di consultazione sulle decisioni del Consiglio e del Consiglio europeo.[9] Questi elementi, insieme con l’inalterata diversità strutturale del sistema della PESC,[10] nell’imprimere al processo decisionale una specificità tutta sua rispetto ai procedimenti normativi previsti per le altre politiche materiali, sono tali da rendere il cumulo difficilmente realizzabile. In particolare risulterebbe difficile conciliare due procedure basate l’una sulla maggioranza qualificata e l’altra sull’unanimità in seno al Consiglio, perché ad uscirne alterata sarebbe probabilmente la posizione del Consiglio; altrettanto difficoltosa sarebbe la partecipazione del Parlamento europeo in conseguenza della simultanea applicazione della base giuridica PESC.[11]
È ragionevole dunque attendersi che la Corte, in applicazione della sua costante giurisprudenza, tenderà ad escludere il cumulo tra basi normative PESC e basi giuridiche relative ad altre politiche materiali. Quel cumulo infatti, più che in altri ambiti, sembra qui prospettarsi in termini di effettiva incompatibilità non solo per la profonda diversità degli obblighi procedurali, ma, più in generale, per le differenze di carattere strutturale tra la PESC e le altre politiche di rilievo esterno.
III. Quale base giuridica sostanziale per l’accordo con la Tanzania?
Alla luce delle osservazioni appena fatte, ci si può allora chiedere quali criteri potranno ispirare la Corte nella scelta della base giuridica di un accordo (o atto) che riguarda in egual misura sia la PESC che altre politiche materiali. È questo essenzialmente il problema che si è posto nella pronuncia in commento.
La sentenza trae origine da un ricorso del PE avverso la decisione 2014/198/PESC del Consiglio, del 10 marzo 2014, relativa alla firma e alla conclusione dell’accordo tra l’Unione europea e la Repubblica unita di Tanzania sulle condizioni in presenza delle quali le persone catturate dalla forza navale diretta dall’Unione europea (EUNAVFOR), in quanto sospettate di atti di pirateria, possano essere trasferite alla Repubblica di Tanzania per essere processate.[12]
Ad avviso del Parlamento, il Consiglio, nell’adottare la decisione di conclusione senza alcun coinvolgimento del PE, avrebbe leso le prerogative parlamentari nella conclusione di accordi internazionali. Secondo il Parlamento, l’accordo con la Repubblica di Tanzania riguarderebbe non solo la PESC, ma, a titolo parimenti principale, anche la cooperazione giudiziaria in materia penale e la cooperazione di polizia, materie per le quali è prevista, sul piano interno, la procedura legislativa ordinaria. Ne dovrebbe conseguire che l’accordo avrebbe dovuto essere fondato non solo sull’art. 37 TUE (base giuridica utilizzata), ma anche sugli artt. 82 e 87 TFUE e, di conseguenza, concluso previa approvazione del Parlamento europeo ai sensi dell’art. 218, par. 6, secondo comma, lett. a) e v), TFUE.[13]
La posizione del Parlamento appare senz’altro comprensibile alla luce dell’accordo: le sue disposizioni non sono tese esclusivamente a stabilire vincoli di politica estera, ma dispongono anche obblighi ricadenti nell’ambito di altre politiche materiali dell’Unione. L’accordo non si limita infatti a disciplinare le condizioni generali sulla base delle quali le persone, che sono arrestate dall’EUNAVFOR, in quanto sospettate di aver commesso atti di pirateria nelle acque territoriali della Somalia, possano essere trasferite sul territorio della Tanzania e sottoposte ad azione giudiziaria (art. 3). L’accordo prevede altresì le condizioni specifiche per l’esercizio dell’azione giudiziaria da parte della Repubblica della Tanzania (artt. 4 e 5), l’indicazione circostanziata dei diritti di cui devono poter beneficiare le persone sottoposte a processo (art. 3, par. 3, 4 e 5), l’individuazione degli obblighi di documentazione gravanti sull’Unione e sull’EUNAVFOR (art. 6) nonché delle modalità con cui questi ultimi forniscono assistenza alla Tanzania in vista delle indagini e dell’azione giudiziaria riguardo alle persone trasferite (art. 7). Nell’economia complessiva dell’accordo, la presenza di tali clausole relative al settore dello spazio di libertà, sicurezza e giustizia sembra quindi rilevare allo stesso titolo di quelle relative alla politica estera sì da configurare un accordo che, nella fase antecedente al Trattato di Lisbona, sarebbe stato definito come interpilier.
IV. La soluzione della Corte
Nella sentenza del 14 giugno 2016, la Corte, al fine presumibilmente di evitare il problema dell’utilizzo di una doppia base giuridica, ha accolto le conclusioni dell’AG Kokott[14] ed ha ritenuto che il Consiglio, adottando la decisione impugnata esclusivamente sulla base dell’art. 37 TUE, non abbia commesso alcun errore di base giuridica. Peraltro, concludendo che “[l]’accordo riguarda in modo preponderante la PESC e non la cooperazione giudiziaria in materia penale o la cooperazione di polizia”,[15] la Corte sembrerebbe aver avviato, con questa pronuncia, una progressiva revisione dei criteri in precedenza utilizzati per ripartire le competenze fra politiche materiali e politica estera dell’Unione.
Conviene ripercorrere, pur brevemente, i passaggi più rilevanti della sentenza. In applicazione dei principi classici elaborati sulla base giuridica, la Corte ha innanzitutto chiarito che “la scelta della base giuridica di un atto dell’Unione, compreso quello adottato ai fini della conclusione di un accordo internazionale, […], deve basarsi su elementi oggettivi suscettibili di sindacato giurisdizionale, tra i quali figurano lo scopo e il contenuto di tale atto”.[16] Coerentemente con questa premessa, ha poi esaminato l’oggetto della decisione impugnata al fine di verificare se essa, tanto per contenuto che per scopo, riguardi in via principale anche il settore della cooperazione giudiziaria in materia penale e quello di polizia. L’analisi condotta dalla Corte ha peraltro messo in luce la difficoltà di determinare con nettezza i confini tra quest’ultimo settore e quello della PESC nell’ambito della disciplina sul trasferimento ed esercizio dell’azione penale nei confronti delle persone sospettate di atti di pirateria. Non stupisce, quindi, che l’indagine circa il contenuto e lo scopo dell’atto impugnato si sia presentata estremamente delicata.
La difficoltà si è innanzitutto posta in relazione alla determinazione del contenuto. La Corte, abbracciando le conclusioni dell’AG Kokott, ha bensì riconosciuto che “alcuni degli obblighi previsti dall’accordo UE-Tanzania sembrano, a prima vista, riguardare i settori della cooperazione giudiziaria in materia penale e della cooperazione di polizia transfrontaliere, se considerate separatamente”.[17] Tuttavia, ha aggiunto che “il fatto che talune disposizioni di detto accordo, considerate isolatamente, assomiglino a norme che possono essere adottate in un settore di azione dell’Unione non è di per sé sufficiente a individuare la base giuridica adeguata della decisione impugnata”.[18] La Corte non ha peraltro svolto ulteriormente l’argomento.
Conviene osservare che se il contenuto di un atto non concorre a determinare la base giuridica pertinente, è ragionevole allora pensare che le singole clausole siano riconducibili alla PESC o, di converso, allo Spazio di libertà, sicurezza e giustizia solo in riferimento agli obiettivi perseguiti dall’accordo nel suo complesso. Questa conclusione, pur formulata in termini impliciti dalla Corte, sembrerebbe indicare che il contenuto e lo scopo di un accordo (o atto) non sono sempre elementi distinti, rilevabili ciascuno sulla base di criteri autonomi, come invece risulterebbe in applicazione della giurisprudenza sulla base giuridica. In certi casi, piuttosto, come in quello esaminato nella sentenza, il contenuto della decisione non sarebbe determinabile autonomamente, ma dipenderebbe dallo scopo perseguito. Ne deriva che anche misure in principio estranee alle azioni classiche proprie della PESC – come quelle, in particolare, disciplinate agli artt. da 3 a 6 dell’accordo – potrebbero rientrare nella sua sfera applicativa se perseguano obiettivi di politica estera. La Corte, dunque, in questa sentenza, nell’attenuare il carattere autonomo che il contenuto di un atto dovrebbe presentare rispetto al suo scopo, sembrerebbe derogare ai criteri cui si è costantemente ispirata.[19]
Parimenti problematico si è presentato l’esame condotto sulla finalità della decisione. Poiché la decisione impugnata, ai sensi, in particolare, del considerando 3, è volta ad attuare l’azione comune 2008/851/PESC[20] la quale è finalizzata a “consentire il trasferimento, nel quadro dell’operazione Atalanta, delle persone arrestate e fermate dall’EUNAVFOR, nonché dei beni sequestrati, verso uno Stato terzo… che intende esercitare la propria giurisdizione nei confronti di tali persone e beni”,[21] la Corte ne ha tratto la conclusione che “[l]’accordo UE-Tanzania è volto, quindi, a istituire un meccanismo fondamentale per contribuire all’effettiva realizzazione degli obiettivi dell’operazione Atalanta”.[22] Esso, di conseguenza, “riguarda in modo preponderante la PESC e non la cooperazione giudiziaria in materia penale o la cooperazione di polizia”.[23]
L’iter argomentativo della Corte, nonostante la sua apparente linearità, non è pienamente convincente. Esso, infatti, non solo si fonda sull’assunto, di incerta applicazione, secondo cui una decisione volta a dare attuazione ad un atto PESC deve essere per definizione considerata come diretta a conseguire gli obiettivi di politica estera piuttosto che altri, ma contraddice quanto sostenuto nella sentenza sul caso Ecowas.[24] In quella pronuncia, la Corte si era chiesta se la decisione impugnata – relativa ad un contributo dell’Unione europea all’ECOWAS nel quadro della moratoria sulle armi leggere e di piccolo calibro[25] – in quanto volta ad attuare un previo atto PESC, dovesse essere “considerata diretta a conseguire piuttosto gli obiettivi della PESC che quelli della politica comunitaria della cooperazione allo sviluppo”.[26] Aveva concluso che l’attuazione di un atto PESC non “debba assumere necessariamente la forma di misure riconducibili al perseguimento di obiettivi della PESC, quali il mantenimento della pace e il rafforzamento della sicurezza internazionale, anziché quella di misure volte al perseguimento degli obiettivi della politica comunitaria di cooperazione allo sviluppo”.[27] In quel caso, la Corte non aveva dunque escluso che la decisione impugnata potesse, “in quanto tale, essere considerata una misura che persegue obiettivi rientranti nella politica di cooperazione allo sviluppo”.[28]
Ancorché questo iter argomentativo rifletta la difficoltà di inquadrare certe attività, come ad es. quelle volte a contrastare la proliferazione di armi leggere e di piccolo calibro, nel settore della PESC o, di converso, nell’ambito della cooperazione allo sviluppo, la Corte aveva riconosciuto che le finalità perseguite rispettivamente dalla PESC e dalle altre politiche materiali di rilievo esterno non sono, almeno in relazione ad alcuni settori, del tutto distinte e separate; piuttosto, esse sembrerebbero idonee a compenetrarsi a vicenda, ed in parte anche a sovrapporsi, condividendo interessi e valori.[29] Di conseguenza, una decisione che è diretta a dare attuazione ad un previo atto PESC non per questo non potrebbe rientrare nella sfera applicativa di una politica materiale.[30]
In questa prospettiva, desta qualche perplessità la conclusione secondo cui la decisione impugnata, in quanto adottata per dare attuazione ad un atto PESC, costituisca per definizione “uno strumento tramite il quale l’Unione persegue gli obiettivi dell’operazione Atalanta, che consistono nel preservare la pace e la sicurezza internazionale”.[31]
Una soluzione più attenuata avrebbe potuto essere tratta valorizzando un argomento anch’esso utilizzato nella sentenza sul caso Ecowas.[32] In quella pronuncia, si era prospettata l’esistenza di clausole particolari le quali, nel comportare obblighi di una tale portata e specificità, costituirebbero in realtà scopi distinti dagli obiettivi propri perseguiti dall’accordo nel suo complesso. Ancorché obblighi siffatti non siano di agevole inquadramento teorico, vi sarebbero misure le quali, in conseguenza dell’intrinseca connotazione “materiale” o, di converso, di “politica estera”, presenterebbero un contenuto autonomo, determinabile cioè a prescindere, eventualmente, anche dai fini che l’atto o l’accordo nel suo complesso tende a realizzare. Come si ricorderà, la Corte, nell’affermare che certe misure potrebbero, in principio, indifferentemente rientrare nella PESC come nelle altre politiche di rilievo esterno, aveva indicato che misure specifiche “come la concessione di un sostegno politico all’attuazione di una moratoria oppure la raccolta e la distruzione di armi rientrerebbero piuttosto fra le operazioni di mantenimento della pace, di rafforzamento della sicurezza internazionale o di promozione della cooperazione internazionale, iscrivendosi negli obiettivi della PESC”.[33]
Seguendo questa linea interpretativa non appare azzardato pensare che alcune clausole presenti nell’accordo – ad es. quelle sugli obblighi relativi all’esercizio dell’azione giudiziaria – possano, in conseguenza della loro marcata caratterizzazione penale, essere intrinsecamente considerate ricadenti nell’ambito della cooperazione giudiziaria in materia penale, a prescindere dalla finalità perseguita dall’accordo nel suo complesso. Clausole del genere, di rilievo sicuramente non accessorio, avrebbero, di conseguenza, potuto essere fondate sulle corrispondenti basi giuridiche materiali che, al pari dell’art. 37 TUE, costituirebbero, sulla base della ricostruzione qui prospettata, altrettante basi giuridiche di carattere sostanziale.
V. Considerazioni conclusive
Ancorché non immediatamente evidente a prima lettura, il rilievo di questa sentenza è pronunciato. Se vi è necessità di ricorrere a due basi giuridiche ogniqualvolta l’atto presenti due componenti parimenti principali, l’esigenza del cumulo verrebbe meno in conseguenza del venir meno del carattere principale di una delle due componenti. In quest’ipotesi, infatti, l’atto sarebbe fondato esclusivamente sulla base giuridica richiesta dalla finalità o componente principale.
L’impressione, difficile da dissipare, è che la Corte, nella sentenza in commento, abbia utilizzato tecniche interpretative le quali hanno sostanzialmente condotto ad isolare un’unica componente principale, quella PESC, a discapito di quella relativa alla cooperazione di polizia e giudiziaria in materia penale che, come si è tentato di dimostrare, avrebbe potuto essere considerata parimenti caratterizzante sulla base di altri parametri ermeneutici.
Ancorché questo risultato appare l’inevitabile conseguenza dell’impraticabilità del cumulo di basi giuridiche in relazione a competenze e procedure che continuano ad ispirarsi a logiche diametralmente opposte, non si può trascurare che esso, nondimeno, ha l’effetto di ostacolare la partecipazione del PE alla conclusione di accordi che, in principio, riguardano in egual misura sia la PESC che altre competenze materiali. In applicazione dei criteri ermeneutici utilizzati nella sentenza qui in commento, il PE si troverebbe infatti sistematicamente estromesso dal procedimento di conclusione di un accordo, anche nell’ipotesi in cui, sulla base di criteri diversi, una base giuridica sostanziale potesse essere rinvenuta nell’ambito delle politiche materiali.
In questa prospettiva, non appare irragionevole ritenere che la Corte – dopo aver ripristinato un perfetto parallelismo tra funzioni interne ed esterne del PE, correggendo l’incongruente soluzione che si sarebbe tratta da un’interpretazione letterale dell’art. 218, par. 6, TFUE (sentenza sul caso Mauritius) – abbia, in questa sentenza, realizzato una sorta di asimmetria rovesciata rispetto a quella dell’art. 218, par. 6, TFUE. Se quest’ultimo impone la partecipazione del PE anche alla conclusione di accordi che riguardino in misura prevalente la PESC, nella sentenza sul caso Tanzania la Corte la esclude, pur in presenza di clausole indubbiamente relative a politiche materiali che potrebbero, al tempo stesso, rilevare della PESC se sol si applicassero altri criteri ermeneutici.[34]
In una prospettiva di sistema, ci si può chiedere se questa conseguenza, per certi versi paradossale, potesse essere evitata. Una soluzione alternativa potrebbe consistere nell’adozione di due distinti atti di conclusione dell’accordo, fondati rispettivamente su disposizioni di una politica materiale e su disposizioni PESC i quali autorizzino, secondo le rispettive procedure, la conclusione dell’accordo per i settori di rispettiva competenza. Questa soluzione, già utilizzata per la conclusione di accordi interpiliers nell’ambito del primo e del terzo pilastro,[35] sembra felicemente tradurre sul piano normativo la netta ripartizione di competenze tra la PESC e le altre politiche materiali operata dai Trattati: gli aspetti di politica estera sarebbero espressi da un atto fondato sull’art. 37 TUE; quelli attinenti alle altre politiche di rilievo esterno sarebbero espresse in un atto fondato sulle corrispondenti basi giuridiche TFUE.[36] In tal modo, non solo non vi sarebbe alcun pregiudizio reciproco per le rispettive procedure, ma sarebbe anche salvaguardato il ruolo del PE nella conclusione degli accordi.
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European Papers, Vol. 1, 2016, No 2, European Forum, Insight of 17 August 2016, pp. 599-609
ISSN 2499-8249 - doi: 10.15166/2499-8249/63
* Professore associato di Diritto dell’Unione europea, Seconda Università di Napoli, eugenia.bartoloni@unina2.it.
[1] Corte di giustizia, sentenza del 14 giugno 2016, causa C-263/14, Parlamento europeo c. Consiglio (caso sull’accordo con la Tanzania).
[2] Corte di giustizia, sentenza del 24 giugno 2014, causa C-658/11, Parlamento europeo c. Consiglio (caso sull’accordo con Mauritius). C. Matera, R.A. Wessel, Context or Content? A CFSP or AFSJ Legal Basis for EU International Agreements – Case C-658/11, European Parliament v. Council (Mauritius Agreement), in Revista de Derecho Comunitario Europeo, 2014, p. 1047 et seq. Si consenta, inoltre, di rinviare a M.E. Bartoloni, Sulla partecipazione del Parlamento europeo sulla formazione di accordi in materia di Politica estera e di sicurezza comune, in Rivista di diritto internazionale, 2012, p. 796 et seq.
[3] Parlamento europeo c. Consiglio (caso sull’accordo con Mauritius), cit., par. 57.
[4] Ivi, par. 59.
[5] Questa possibilità era stata invece esclusa nell’ambito del quadro normativo antecedente al Trattato di Lisbona. Come si ricorderà, nella sentenza sul caso Ecowas (Corte di giustizia, sentenza del 20 maggio 2008, causa C-91/05, Commissione c. Consiglio) la Corte di giustizia aveva stabilito che un atto, ancorché persegua più obiettivi o presenti più componenti principali rientranti, rispettivamente, nelle competenze materiali e nella PESC, non possa fondarsi sulle diverse basi giuridiche corrispondenti, ma debba necessariamente fondarsi unicamente sulla base giuridica materiale (par. 76). La Corte aveva fondato questa conclusione sull’art. 47 TUE, nella versione allora in vigore, al quale, nella precedente struttura a pilastri, era assegnata la funzione di preservare integralmente l’ambito delle competenze comunitarie da possibili interferenze ad opera di atti adottati sulla base del secondo o terzo pilastro. Il Trattato di Lisbona parrebbe però rimettere in discussione la soluzione accolta dalla Corte nel caso Ecowas. Il nuovo art. 40 TUE (che si è sostituito all’art. 47 TUE), a seguito della sua nuova formulazione, non sarebbe più preordinato a garantire una posizione di prevalenza alla base giuridica che trova il suo fondamento giuridico nelle disposizioni relative alle politiche materiali, rispetto ad una base giuridica concorrente che si fonda sulla PESC. In conseguenza di tali modifiche, sembra logico ritenere che la giurisprudenza sulla base giuridica debba quindi applicarsi anche rispetto ad atti o ad accordi PESC. V., nella stessa prospettiva, M. Klamert, Conflicts of Legal Basis: No Legality and No Basis but a Bright Future under the Lisbon Treaty?, in European Law Review, 2010, p. 497 et seq. V., inoltre, B. Van Vooren, The Small Arms Judgment in an Age of Constitutional Turmoil, in European Foreign Affairs Review, 2009, p. 243 et seq.
[6] V., ad es., Corte di giustizia, sentenza dell’11 giugno 1991, causa C-300/89, Commissione c. Consiglio; Corte di giustizia, sentenza del 3 settembre 2009, causa C-166/07, Parlamento europeo c. Consiglio; Corte di giustizia, sentenza del 29 aprile 2004, causa C-338/01, Commissione c. Parlamento europeo; Corte di giustizia, sentenza del 6 novembre 2008, causa C-155/07, Parlamento europeo c. Consiglio.
[7] Ivi.
[8] V. art. 24, par. 2, TUE; v., inoltre, art. 31, par. 1, TUE.
[9] Per quanto concerne più specificamente la Commissione, il ruolo d’iniziativa originariamente attribuitole dall’ex art. 22 TUE è stato trasferito dal Trattato di Lisbona in capo all’Alto rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza il quale lo condivide con gli Stati membri. Alla Commissione è stato invece riservato il ruolo residuale di appoggiare tutt’al più le proposte dell’Alto Rappresentante (v. art. 30, par. 1, TUE). Quanto al PE, non è prevista alcuna sua forma di consultazione nell’ambito dei procedimenti decisionali, con la sola eccezione prevista all’art. 41, par. 3, TUE. Di regola, il Parlamento europeo è unicamente consultato dall’alto Rappresentante “sui principali aspetti e sulle scelte fondamentali della politica estera e di sicurezza comune e della politica di sicurezza e di difesa comune” che lo informa dell’evoluzione di tali politiche.
[10] R.H. Van Ooik, Cross-pillar Litigation Before the ECJ: Demarcation of Community and Union Competences, in European Constitutional Law Review, 2008, p. 399 et seq.
[11] Pur in un contesto diverso, la Corte, nel verificare la compatibilità delle procedure rispettivamente previste agli artt. 75 e 215, par. 2, TFUE, ha rilevato la loro incompatibilità per due ordini di motivi: non solo perché l’applicazione della procedura legislativa ordinaria, prevista dall’art. 75 TFUE, implica il voto a maggioranza qualificata nell’ambito del Consiglio e la piena partecipazione del Parlamento al procedimento, e dunque mal si concilia con la procedura stabilita all’art. 215 TFUE che implica invece la mera informazione del Parlamento; ma anche perché “contrariamente al ricorso all’art. 75 TFUE, il ricorso all’art. 215, par. 2, TFUE richiede la previa esistenza di una pertinente decisione della PESC, vale a dire una decisione adottata ai sensi del capo 2 del titolo V del Trattato UE, che prevede l’adozione di misure restrittive come quelle previste da detta disposizione. L’adozione di una siffatta decisione implica, di regola, il voto all’unanimità nell’ambito del Consiglio che decide da solo” (v. Corte di giustizia, sentenza del 19 luglio 2012, causa C-130/10, Parlamento c. Consiglio, par. 47, 48 e 49). La Corte dunque, pur implicitamente, ha affermato che la procedura decisionale prevista in ambito PESC, la quale richiede in principio che il Consiglio decida da solo e all’unanimità, è incompatibile con una procedura nella quale il potere decisionale è condiviso dal Consiglio e dal Parlamento e nel cui ambito il Consiglio si esprime a maggioranza qualificata. Per una posizione più attenuata v. P. Van Elsuwege, EU External Action after the Collapse of the Pillar Structure: in Search of New Balance between Delimitation and Consistency, in Common Market Law Review, 2010, p. 1007.
[12] Decisione 2014/198/PESC del Consiglio del 10 marzo 2014 relativa alla firma e alla conclusione dell’accordo tra l’Unione europea e la Repubblica unita della Tanzania sulle condizioni del trasferimento delle persone sospettate di atti di pirateria e dei relativi beni sequestrati da parte della forza navale diretta dall’Unione europea alla Repubblica unita della Tanzania.
[13] Parlamento c. Consiglio (caso sull’accordo con la Tanzania), cit., par. 25. Peraltro, il PE ha dedotto un secondo motivo di ricorso: la violazione dell’obbligo enunciato all’art. 218, par. 10, TFUE ai sensi del quale quest’ultimo deve essere “immediatamente e pienamente informato in tutte le fasi della procedura” dell’iter di conclusione di accordi internazionali, compresi quelli che riguardano la PESC.
[14] Conclusioni dell’AG Kokott presentate il 28 ottobre 2015, causa C-263/14, Parlamento c. Consiglio (caso sull’accordo con la Tanzania).
[15] Ivi, par. 55.
[16] Ivi, par. 43.
[17] Ivi, par. 47.
[18] Ibid.
[19] V., ad es., Corte di giustizia, sentenza dell’11 giugno 1991, causa C-300/89, Commissione c. Consiglio (Biossido di titanio), par. 10, e Corte di giustizia, sentenza del 19 settembre 2002, causa C-336/00, Huber, par. 30.
[20] Azione comune 2008/851/PESC del Consiglio del 10 novembre 2008 relativa all’operazione militare dell’Unione europea volta a contribuire alla dissuasione, alla prevenzione e alla repressione degli atti di pirateria e delle rapine a mano armata al largo della Somalia.
[21] Azione comune 2008/851, par. 48.
[22] Ivi, par. 49.
[23] Ivi, par. 55.
[24] Corte di giustizia, sentenza del 20 maggio 2008, causa C-91/05, Commissione c. Consiglio (ECOWAS).
[25] Decisione 2004/833/PESC del Consiglio del 2 dicembre 2004 che attua l’azione comune 2002/589/PESC in vista di un contributo dell’Unione europea all’ECOWAS nel quadro della moratoria sulle armi leggere e di piccolo calibro.
[26] Commissione c. Consiglio (ECOWAS), cit., par. 80.
[27] Ivi, par. 84.
[28] Ivi, par. 92.
[29] C. Hillion, R.A. Wessel, Competence Distribution in EU External Relations after ECOWAS: Clarification or Continued Fuzziness?, in Common Market Law Review, 2010, p. 578.
[30] Peraltro, la conclusione della Corte circa una certa interscambiabilità tra azioni PESC e politiche materiali potrebbe prestarsi ad una lettura incompatibile con il principio dei poteri attribuiti qualora implicitamente autorizzasse le politiche materiali a perseguire obiettivi di politica estera o acconsentisse che decisioni PESC realizzassero contestualmente anche scopi che appartengono alle altre politiche (E. Cannizzaro, The Scope of the EU Foreign Powers, in E. Cannizzaro (ed.), The European Union as an Actor in International Relations, The Hague: Kluwer Law International, 2002, p. 305 et seq.). Una interpretazione del genere non appare tuttavia strettamente necessaria. Infatti, se è vero che un atto PESC non esclude che i suoi obiettivi possano essere raggiunti attraverso misure fondate sul TFUE, ciò potrebbe significare solo che queste, nel perseguire obiettivi propri delle politiche materiali, possano nondimeno contribuire indirettamente alla realizzazione di finalità PESC (D. Eisenhut, Delimitation of EU-Competences under the First and Second Pillar: A View Between ECOWAS and the Treaty of Lisbon, in German Law Journal, 2009, p. 585 et seq.). In quest’ottica, l’azione comunitaria, pur concorrendo all’attuazione di scopi PESC, non sarebbe distolta dai fini ad essa tipicamente riconnessi.
[31] Parlamento c. Consiglio (caso sull’accordo con la Tanzania), cit., par. 54.
[32] Commissione c. Consiglio (ECOWAS), cit.
[33] Ivi, par. 105.
[34] Non sorprende dunque che, forse proprio al fine di controbilanciare una soluzione così penalizzante per il PE, la Corte, nell’accogliere il secondo motivo di ricorso, abbia interpretato in maniera ulteriormente estensiva, rispetto a quanto non avesse già fatto nella sentenza sul caso Mauritius, il diritto del PE, ai sensi dell’art. 218, par. 10, TFUE ad essere “immediatamente e pienamente informato in tutte le fasi della procedura” di negoziazione e di conclusione di un accordo relativo alla PESC. Il diritto del PE ad essere informato non può infatti essere limitato alle sole fasi classiche della procedura di negoziazione e conclusione, “ma si estende anche ai risultati intermedi raggiunti dai negoziati”, imponendo al Consiglio di trasmettere al PE “il testo del progetto di accordo e quello del progetto di decisione su cui avevano raggiunto l’accordo i consiglieri per le relazioni esterne del Consiglio incaricati dei negoziati” (Parlamento c. Consiglio (caso sull’accordo con la Tanzania), cit., par. 77).
[35] Ad es., la conclusione dell’accordo tra l’Unione europea, la Comunità europea e la Confederazione svizzera riguardante l’associazione della Confederazione svizzera all’attuazione, all’applicazione e allo sviluppo dell’acquis di Schengen sono state autorizzate con l’adozione di due decisioni separate del Consiglio: una basata sugli artt. 62, 63, 66, 95 TCE in combinato disposto con l’art. 300 TCE (v. Decisione 2008/146/CE del Consiglio del 28 gennaio 2008 relativa alla conclusione, a nome della Comunità europea, dell’accordo tra l’Unione europea, la Comunità europea e la Confederazione svizzera, riguardante l’associazione della Confederazione svizzera all’attuazione, all’applicazione e allo sviluppo dell’acquis di Schengen); l’altra fondata sugli artt. 24 e 38 TUE (v. Decisione 2008/149/GAI del Consiglio del 28 febbraio 2008 relativa alla conclusione, a nome dell’Unione europea, dell’accordo tra l’Unione europea, la Comunità europea e la Confederazione svizzera, riguardante l’associazione della Confederazione svizzera all’attuazione, all’applicazione e allo sviluppo dell’acquis di Schengen).
[36] Per questa soluzione sembrerebbero orientati anche C. Hillion, R.A. Wessel, Competence Distribution in EU External Relations, cit., p. 575. V., inoltre, M. Klamert, Conflicts of Legal Basis, cit., p. 515.