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Abstract: The purpose of this work is to analyze the decision of the Court of Justice in M.A.S. judgment (Court of Justice, judgment of 5 December 2017, case C-42/17, M.A.S. and M.B. [GC]), after the reference for preliminary ruling of the Italian Constitutional Court, concerning the connection between the internal principle of legality in criminal matters and the European Union law. The Court of Justice declares, inexplicably, that national provisions on limitation in criminal matters may not fall within the scope of European Union law. Consequently, the Italian Republic is free to provide that in its legal system those provisions form part of substantive criminal law, and are thereby subject to the principle that offences and penalties must be defined by law. It follows that national courts have to ascertain whether the application of Taricco decisum leads to a situation of uncertainty in the Italian legal system about the determination of the applicable limitation provisions, that would produce a violation of the principle that the applicable law must be precise. If so, the national court is not obliged to disapply those provisions. With this decision the Court of Justice has heavily hit the principle of primacy. Perhaps, it could have better remarked another element of the principle of legality: the reserve of law. So it would have been possible anchoring to “normative”, and “objective” parameters the requirement that the applicable law must be precise, and avoiding the national court could act in absolute discretion. And if the parameters were finally founded within the European law, the primacy would not have been compromised.
Keywords: principle of legality – Charter of Fundamental Rights of the European Union – Italian Constitution – Italian Constitutional Court – primacy of EU law – Taricco.
I. Premessa
L’antecedente della decisione della Corte di giustizia che oggi si commenta è la nota sentenza Taricco,[1] sulla quale tanto si è scritto, soprattutto per le implicazioni che essa ha prodotto sui rapporti tra ordinamenti, sul rispetto della sovranità nazionale e, in una delle poche volte nella nostra storia costituzionale, in riferimento ai controlimiti.
Ne è derivato un acceso dibattito dottrinale e, in seguito ad un percorso giurisprudenziale interno che ha visto coinvolte la Corte d’appello di Milano e la Corte di Cassazione, che hanno sollevato questioni di legittimità costituzionale, anche un’ordinanza della Consulta con cui quest’ultima ha sottoposto alla Corte di giustizia una serie di questioni pregiudiziali.[2] La Corte costituzionale, più in particolare, sul presupposto per il quale, nell’ordinamento giuridico italiano, la prescrizione abbia natura sostanziale, con conseguente copertura dell’art. 25 della Costituzione, norma che sancisce il principio di legalità, ha ritenuto opportuno interrogare i giudici dell’Unione per ottenere una rilettura, potremmo dire “costituzionalmente orientata”, della Taricco e dell’interpretazione ivi prospettata per l’art. 325 TFUE. Visto che il regime della prescrizione dovrebbe essere disciplinato da precise disposizioni normative, determinate adeguatamente nel contenuto, e come tali vigenti al momento della commissione del reato, il meccanismo della disapplicazione della norma interna disegnato dalla Corte di giustizia avrebbe finito infatti con il comportare, secondo la Consulta, un evidente ed insanabile vulnus a principi e valori costituzionalmente garantiti. Non a caso essa insiste proprio su questa doppia faccia del principio di legalità, che dovrebbe essere inteso non solo nel senso di irretroattività della norma penale, ma anche in riferimento alla sufficiente determinatezza della fattispecie incriminatrice.
Ora, in questo breve scritto si tenterà di dar conto della decisione emessa dalla Grande Sezione della Corte di giustizia a fronte del rinvio pregiudiziale della Corte costituzionale italiana,[3] tentandone altresì una ricostruzione critica che metta in rilievo le intrinseche incongruenze di un dictum che ha spiazzato tutti, forse costituzionalisti compresi, atteso che non si presenta certamente come ci si era aspettati!
Ci si riferisce non già alla circostanza per cui la Corte di giustizia abbia disatteso la soluzione suggeritale dall’AG Bot nelle sue conclusioni; circostanza, questa, prevedibile ed auspicabile alla luce di esigenze di compromesso che condivisibilmente i giudici dell’Unione hanno voluto soddisfare. Ma piuttosto all’atteggiamento di “resa” totale nei confronti della Corte costituzionale, rispetto alla quale ha dimostrato una “generosità” inaspettata e francamente eccessiva, in quanto foriera di riverberazioni potenzialmente devastanti sull’intera impalcatura dell’integrazione europea.
II. Il giudizio della Corte
Dopo avere riproposto un’analisi dell’art. 325, par. 1 e 2, TFUE la Corte di giustizia ribadisce l’idoneità della norma a produrre effetti diretti, atteso che “pone a carico degli Stati membri obblighi di risultato precisi, che non sono accompagnati da alcuna condizione quanto all’applicazione delle norme enunciate da tali disposizioni”.[4] La conseguenza di tale assunto è quella per cui il giudice nazionale sarà obbligato a procedere alla disapplicazione di qualsivoglia norma interna, ivi comprese quelle in tema di prescrizione, che contrasti con quelle dell’Unione e, nello specifico, osti all’applicazione di sanzioni effettive e dissuasive per combattere le frodi e le altre attività illegali lesive degli interessi finanziari dell’Unione stessa.
A questo punto, poi, è come se la Corte mutasse drasticamente indirizzo, assumendo una diversa posizione.
Precisa che quello della tutela degli interessi finanziari dell’Unione sia un settore a competenza concorrente. Aggiunge, poi, che al momento del verificarsi dei fatti di cui al procedimento principale, il regime della prescrizione per i reati in materia di imposta sul valore aggiunto (IVA) non era stato oggetto di armonizzazione da parte del legislatore dell’Unione, con la conseguenza per cui “[l]a Repubblica italiana era quindi libera, a tale data, di prevedere che, nel suo ordinamento giuridico, detto regime ricadesse, al pari delle norme relative alla definizione dei reati e alla determinazione delle pene, nel diritto penale sostanziale e fosse a questo titolo soggetto, come queste ultime norme, al principio di legalità”.[5]
Affronta, ovviamente, il profilo della tutela dei diritti fondamentali della persona, affermando a questo proposito, potremmo dire “a sorpresa”, che “resta consentito alle autorità e ai giudici nazionali applicare gli standard nazionali di tutela dei diritti fondamentali, a patto che tale applicazione non comprometta il livello di tutela previsto dalla Carta, come interpretata dalla Corte, né il primato, l’unità o l’effettività del diritto dell’Unione”.[6]
Richiamandosi, dunque, ai quesiti pregiudiziali sottoposti alla sua attenzione, rileva come i requisiti di prevedibilità, determinatezza ed irretroattività inerenti al principio di legalità dei reati e delle pene si debbano applicare, secondo quanto previsto dall’ordinamento giuridico italiano, anche al regime della prescrizione relativamente ai reati in materia di IVA. Ne deriva che “spetta al giudice nazionale verificare se la condizione richiesta dal punto 58 della sentenza Taricco, secondo cui le disposizioni del codice penale in questione impediscono di infliggere sanzioni penali effettive e dissuasive in un numero considerevole di casi di frode grave che ledono gli interessi finanziari dell’Unione, conduca a una situazione di incertezza nell’ordinamento giuridico italiano quanto alla determinazione del regime di prescrizione applicabile, incertezza che contrasterebbe con il principio della determinatezza della legge applicabile. Se così effettivamente fosse, il giudice nazionale non sarebbe tenuto a disapplicare le disposizioni del codice penale in questione”.[7]
Per quanto concerne, poi, il connesso profilo dell’irretroattività della norma penale, come sussumibile nel principio di legalità, stabilisce che i criteri prospettati nel corpo della pronuncia ostano a che, in procedimenti relativi a persone accusate di aver commesso reati in materia di IVA prima della pronuncia Taricco, il giudice nazionale disapplichi le disposizioni del codice penale in questione. Infatti, “la Corte ha già sottolineato, al punto 53 di tale sentenza, che a dette persone potrebbero, a causa della disapplicazione di queste disposizioni, essere inflitte sanzioni alle quali, con ogni probabilità, sarebbero sfuggite se le suddette disposizioni fossero state applicate. Tali persone potrebbero quindi essere retroattivamente assoggettate a un regime di punibilità più severo di quello vigente al momento della commissione del reato”.[8]
III. Un tentativo di ricostruzione critica della pronuncia
Pare che la soluzione infine raggiunta dalla Corte di giustizia, per quanto sotto molti profili discutibile, risponda tuttavia ad una ben precisa logica di “distensione politica” dei rapporti non solo tra le corti coinvolte in questa saga, ma soprattutto tra gli ordinamenti, quello interno e quello dell’Unione, di cui queste stesse corti devono garantire la tenuta e la coesistenza.
Così, se la Corte di giustizia si fosse pronunciata, per intenderci, nel senso suggeritole dall’Avvocato generale,[9] avrebbe prodotto quasi certamente delle conseguenze pesanti sul disegno europeo, acutizzando il conflitto interordinamentale che la Consulta aveva molto esplicitamente prospettato[10] e con ciò mettendo a repentaglio le esigenze stesse di uniformità dell’intero sistema. Rilievo, quest’ultimo, a prima vista contraddittorio, e tuttavia rispondente all’esigenza di far prevalere le ragioni dell’integrazione su quelle dell’uniformità assoluta e a tutti i costi delle soluzioni, ancorché ciò si sia dovuto realizzare attraverso l’implicita valorizzazione dell’identità costituzionale nazionale, secondo le specificità delineate dai giudici della Corte costituzionale.
In altri termini, se si fossero create le condizioni per l’attivazione dei controlimiti nel caso italiano, il probabile scenario futuro sarebbe stato caratterizzato, al livello macrosistemico, da possibili proliferazioni di atteggiamenti di “ribellione” delle varie corti costituzionali nazionali – alla luce di una riscoperta valorizzazione dei principi fondanti l’identità costituzionale – in tutte le ipotesi, anche quelle marginali, in cui i valori strutturali nazionali siano messi potenzialmente in discussione dall’appartenenza all’ordinamento dell’Unione. E sono evidenti le conseguenze negative che ciò produrrebbe sulla salvaguardia del principio di uniformità nell’interpretazione ed applicazione del diritto dell’Unione presso tutti gli Stati membri.
Ma se questo rischio sussiste ancora, in seguito alla pronuncia in commento, non è a causa del dictum in sé considerato, ma piuttosto del modo in cui la Corte di giustizia lo argomenta.
Certo, il compito del giudice del Kirchberg era molto difficile, atteso che la Corte costituzionale, dietro il manto formale del tentativo di dialogo, gli chiedeva in sostanza di tornare indietro sui suoi passi. Ma nonostante ciò, avrebbe potuto forse farlo diversamente, evitando, sì, lo scontro diretto, ma adottando una soluzione che da molti era stata auspicata come di “compromesso”. In tal modo si sarebbero probabilmente escluse, al contempo, le molteplici contraddizioni interne che si segnalano nella pronuncia.
E veniamo alla prima di tali contraddizioni.
Nei par. da 30 a 42 della sua sentenza, la Corte di giustizia sembra piuttosto sicura nel ribadire i principi di cui alla sentenza Taricco, tanto a proposito della portata dell’art. 325 TFUE, quanto circa gli obblighi incombenti sui giudici nazionali a fronte di un’eventuale incompatibilità con detta norma di disposizioni nazionali, sia di natura sostanziale che processuale.
Così, tra le altre cose, precisa al par. 36 che gli Stati “devono altresì assicurarsi che le norme sulla prescrizione previste dal diritto nazionale consentano una repressione effettiva dei reati” legati a frodi lesive degli interessi finanziari dell’Unione. Continua, poi, al par. 40, ricordando che “le disposizioni nazionali in questione sono state considerate idonee a pregiudicare gli obblighi imposti allo Stato membro interessato dall’articolo 325, paragrafi 1 e 2, TFEU, nell’ipotesi in cui dette disposizioni impediscano di infliggere sanzioni penali effettive e dissuasive in un numero considerevole di casi di frode grave che ledono gli interessi finanziari dell’Unione o in cui prevedano, per i casi di frode che ledono detti interessi, termini di prescrizione più brevi di quelli previsti in casi di frode che ledono gli interessi finanziari di tale Stato membro”.
Dopo questa premessa, caratterizzata da un incedere argomentativo esteso e pieno nei contenuti, che sembrava preludere ad un epilogo in linea con quanto suggerito da Bot, la Corte di giustizia cambia rotta, e lo fa in modo repentino, quasi che non veda l’ora di chiudere il discorso per non dare a vedere che, suo malgrado, sia dovuta tornare indietro sui suoi passi!
E quel che è peggio è che il tutto passa attraverso un rilievo che non ci si sarebbe aspettati. La Corte infatti sottolinea che, al momento dei fatti del procedimento principale, il regime della prescrizione applicabile ai reati in materia di IVA non era stato ancora oggetto di armonizzazione da parte del legislatore dell’Unione, e che di conseguenza l’ordinamento nazionale poteva liberamente prevedere che detto regime ricadesse, al pari delle norme relative alla definizione dei reati e alla determinazione delle pene, nel diritto penale sostanziale e fosse a questo titolo soggetto, come queste ultime norme, al principio di legalità.
Ora, si tratta di un argomento che non convince pienamente.
Ancor prima che i giudici dell’Unione si pronunciassero, quando la dottrina avanzava supposizioni sui possibili risvolti della vicenda, questo profilo era stato in termini lungimiranti già messo in evidenza. A tal fine rilevando, condivisibilmente, che “qualsiasi disciplina […] capace di incidere in negativo sull’effettività delle norme dell’Unione rientra per definizione nel perimetro dello scrutinio comunitario, con la conseguenza che qualora le regole nazionali (pur non armonizzate) comportino un vulnus al raggiungimento del risultato che le regole sostanziali dell’Unione intendono realizzare, le stesse devono essere disapplicate”.[11]
Quindi, pur se nel rispetto dell’autonomia procedurale degli Stati membri, la Corte di giustizia è stata sempre chiara nel pretendere che l’apparato sanzionatorio nazionale fosse dissuasivo e repressivo, ossia, in una parola, “effettivo”.[12]
IV. La tutela dei diritti fondamentali
Non convince molto nemmeno il riferimento, nei punti successivi della sentenza, al rispetto dei diritti fondamentali e al connesso profilo del principio di legalità dei reati e delle pene.
Anche su questo versante la Corte di giustizia sembra smentire le premesse di quel ragionamento che, in termini estremamente raffinati, aveva formulato nella pronuncia Taricco.
Nella sentenza M.A.S. e M.B., in particolare al par. 47, afferma infatti che resta consentito alle autorità e ai giudici nazionali applicare i propri standard nazionali di tutela dei diritti fondamentali, a patto che tale applicazione non comprometta il livello di tutela previsto dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (Carta), come interpretata dalla Corte, né il primato, l’unità o l’effettività del diritto dell’Unione.
Ma come possono, realisticamente, tutelarsi il primato, l’unità o l’effettività del diritto dell’Unione se si consente, come fa la Corte di giustizia nel caso di specie, che ogni Stato applichi il proprio sistema di tutela dei diritti, anche quando di contenuto e caratteristiche ulteriori e diverse rispetto a quelle previste dalla Carta?
In effetti, anche in tempi recenti, la Corte di giustizia ha riconosciuto che la primauté incontri un limite specifico, legato alla necessità di garantire la tutela effettiva dei diritti degli interessati, con la conseguenza che in tutte le ipotesi in cui tali diritti non siano adeguatamente rispettati, la norma dell’Unione, la cui applicazione sia la causa di questa incompatibilità, possa essere disattesa.[13] Tuttavia è chiaro che “qualora, come nel caso che ci occupa, la materia […] è coperta dal diritto dell’Unione, mentre gli Stati membri operano per la sua applicazione ed enforcement, l’apertura ora ricordata vale esclusivamente se le garanzie di tutela dei diritti fondamentali si rinvengono nell’ordinamento dell’Unione, e non in quello interno”.[14]
Questo è proprio quello che la Corte di giustizia aveva inteso dire già in Melloni,[15] prima ancora che in Taricco, ossia che spetti proprio ad essa stabilire se un obbligo promanante da una norma dell’Unione sia o meno compatibile con i diritti fondamentali dell’individuo, così come questi sono sanciti però proprio al livello dell’Unione; ed è sempre la Corte, quindi, che una volta riconosciuta, in ipotesi, tale compatibilità, può imporre allo Stato di dare esecuzione all’obbligo di cui trattasi, anche se esso contrasti con principi di rilievo costituzionale interno, per quanto in ipotesi attributivi di garanzie addirittura supplementari.
Bisogna ammettere che questa soluzione, sebbene criticata in dottrina, risponda ad una logica precisa e condivisibile, ossia quella di “far prevalere le ragioni dell’uniformità nell’applicazione del diritto europeo rispetto alla preoccupazione di assicurare il massimo livello possibile di tutela”.[16] E, d’altra parte, l’applicazione “del principio della protezione più estesa appare molto più problematica nei casi in cui tale principio venga utilizzato come strumento di soluzione dei conflitti fra sistemi concorrenti di tutela dei diritti”,[17] quali sono i sistemi nazionali rispetto a quello dell’Unione. Una tale ricostruzione appare ancora più convincente in quanto connessa all’idea che gli effetti diretti di una norma dell’Unione dipendano dalla compiutezza del precetto in essa contenuto, tale da renderla idonea a sostituirsi a quella nazionale confliggente.[18]
In ogni caso, a prescindere da quale sembri essere la ratio dominante sottesa alle statuizioni della Corte di giustizia, quel che appare certo è che, essendo in rilievo una materia rientrante nel campo di applicazione del diritto dell’Unione, è in funzione della Carta, con particolare riguardo al suo art. 49, che deve essere svolta l’analisi sulla base della quale individuare un’eventuale violazione dei diritti fondamentali. Analisi, questa, che la Corte di giustizia aveva invero già svolto in Taricco e che aveva risolto negativamente, ossia escludendo qualsivoglia vulnus ai diritti degli imputati a fronte del meccanismo di disapplicazione prospettato, e tuttavia in questa sede smentita alla luce di un non ben precisato principio di legalità, come concepito dall’ordinamento costituzionale italiano, e della qualifica sostanziale della prescrizione secondo la struttura dello stesso sistema italiano.
V. Il principio di legalità e il divieto di retroattività
La Corte costituzionale ritiene, diversamente dalla Corte di giustizia, che la disapplicazione delle norme interne sulla prescrizione, considerate dalla pronuncia Taricco incompatibili con l’obbligo scaturente dall’art. 325 TFUE, comporti una violazione dei diritti degli imputati e della copertura costituzionale ad essi offerta dal principio di legalità di cui all’art. 25 della Costituzione. Più in particolare, gli interessati non avrebbero potuto prevedere, prima della pronuncia Taricco, che la stessa esistenza di una norma del Trattato, quale appunto l’art. 325 TFUE, avrebbe imposto al giudice nazionale la disapplicazione di norme interne sulla prescrizione dei reati. Trattasi di norme che, per consolidata, seppur discutibile giurisprudenza costituzionale, attengono peraltro al nucleo più autentico del nullum crimen sine lege, ossia agli elementi costitutivi della fattispecie incriminatrice e al trattamento sanzionatorio ad essa applicabile.
Anche su questo punto la sentenza in commento pare di difficile comprensione.
Esordisce affermando l’importanza che il principio di legalità dei reati e delle pene assume non solo negli ordinamenti nazionali, ma anche in quello dell’Unione, laddove l’art. 49 della Carta lo sancisce espressamente. Prosegue poi precisando che tale principio, in conformità alle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri, consta dei requisiti della prevedibilità, della determinatezza e della irretroattività della legge penale applicabile. Con particolare riguardo al requisito della irretroattività della legge penale, rileva poi che esso “osta a che un giudice possa, nel corso di un procedimento penale, sanzionare penalmente una condotta non vietata da una norma nazionale adottata prima della commissione del reato addebitato, ovvero aggravare il regime di responsabilità penale di coloro che sono oggetto di un procedimento siffatto”.[19]
Conclude, infine, nel senso che tali requisiti inerenti al principio di legalità si applicano, nell’ordinamento giuridico italiano, anche al regime di prescrizione relativo ai reati in materia di IVA, trattandosi di disciplina non armonizzata al momento dei fatti del procedimento principale.
Ed in effetti la Consulta aveva chiesto proprio questo.
Non aveva chiesto alla Corte di giustizia di definire il contenuto e la portata del principio di legalità nell’ordinamento dell’Unione, né di rivedere l’interpretazione, eventualmente proponendone una più estensiva, dell’art. 49 della Carta. La Corte costituzionale si poneva piuttosto su un piano interordinamentale, a tal fine chiedendo in sostanza ai giudici di Lussemburgo se, nonostante nel diritto dell’Unione il principio di legalità non copra il regime della prescrizione, lo Stato “possa applicare a questo aspetto la propria concezione nazionale più ampia, in quanto tale concezione è legata ad un principio fondamentale dell’ordinamento costituzionale di quello Stato”.[20]
E la Corte risponde, invero in modo un po’ sbrigativo, di sì.
E lo fa riproponendo il medesimo vizio di fondo emerso sin dall’inizio del ragionamento, sul quale per di più smentisce se stessa rispetto al precedente Taricco, ossia quello di considerare quella della prescrizione una materia estranea al diritto dell’Unione, come tale non ricadente nel suo campo di applicazione.
VI. Il principio di legalità e la sufficiente determinatezza del regime di punibilità
Nella sua ordinanza di rimessione, la Corte costituzionale focalizza poi l’attenzione sul principio di determinatezza della fattispecie, quale conseguenza diretta dell’ulteriore principio, cardine dell’ordinamento costituzionale, della separazione dei poteri.
E in verità si tratta di un profilo che la sentenza Taricco non aveva trattato adeguatamente, visto che si era concentrata sul richiamo alla Carta con riguardo al solo divieto di retroattività, e non già a quello relativo alla necessità che la norma che definisce il regime della punibilità sia sufficientemente determinata. Quindi alla Corte veniva richiesto di chiarire se fosse o meno compatibile con l’art. 49 della Carta un’interpretazione dell’art. 325 TFUE che, nei fatti, consentisse al giudice la determinazione di un nuovo regime prescrizionale non previsto dalla legge. Di tal che si chiedeva in sostanza se l’art. 325 TFUE andasse interpretato nel senso di imporre al giudice penale di disapplicare la disciplina sulla prescrizione “anche quando tale omessa applicazione sia priva di una base legale sufficientemente determinata”.[21]
Si rileva come i giudici costituzionali affermino con forza che l'art. 325 TFUE, pur indicando “un obbligo di risultato chiaro e incondizionato, […] omette di indicare con sufficiente analiticità il percorso che il giudice penale è tenuto a seguire per conseguire lo scopo”.[22] É evidente che un approccio di tal sorta valorizzi il nesso che lega il principio di determinatezza e la soggezione del giudice alla legge negli ordinamenti costituzionali di civil law, i quali “non affidano al giudice il potere di creare un regime legale penale, in luogo di quello realizzato dalla legge approvata dal Parlamento, e in ogni caso ripudiano l’idea che i tribunali penali siano incaricati di raggiungere uno scopo, pur legalmente predefinito, senza che la legge specifichi con quali mezzi e in quali limiti ciò possa avvenire”.[23]
Ora, è certamente vero che la regola varata dai giudici di Lussemburgo nella sentenza Taricco non fosse sufficientemente determinata, risultando vago tanto il requisito della gravità della violazione, quanto e più ancora quello del “numero considerevole di casi”, cui era subordinata la prevista disapplicazione. E, soprattutto, è vero che il principio di legalità, come inteso nell’ordinamento dell’Unione, non si configuri in senso stretto quale principio “ordinamentale”, per ciò stesso riconducibile al citato criterio della separazione dei poteri, ma quasi come un diritto soggettivo. Il che si potrebbe implicitamente dedurre da una pronuncia in cui la Corte di giustizia precisa che il singolo deve poter “conoscere, in base al testo della disposizione rilevante e, se del caso, con l’aiuto dell’interpretazione che ne sia stata fatta dai giudici, gli atti e le omissioni che chiamano in causa la sua responsabilità penale”.[24]
Di conseguenza si ritiene che proprio concentrandosi di più su questo profilo i giudici dell’Unione avrebbero potuto prospettare quella tanto auspicata soluzione di “compromesso”, da un lato non prestando il fianco alla fortissima tentazione della nostra Corte costituzionale di attivare i controlimiti, e dall’altro mantenendosi fedeli al rispetto delle esigenze generali di primazia del diritto dell’Unione. Soluzione che, d’altra parte, la stessa Corte costituzionale, ben consapevole della prospettiva europea di riferimento, sembrava aver suggerito alla Corte di giustizia. É la stessa Consulta, infatti, che sembra mettere in conto che la Corte di Lussemburgo mantenga la qualificazione della prescrizione come istituto di natura processuale, evidenziando che “anche se si dovesse ritenere che la prescrizione ha natura processuale, o che comunque può essere regolata anche da una normativa posteriore alla commissione del reato, ugualmente resterebbe il principio che l’attività del giudice chiamato ad applicarla deve dipendere da disposizioni legali sufficientemente determinate”.[25]
Ma i giudici dell’Unione, che avrebbero potuto sfruttare questa possibilità senza intaccare il principio dei principi, la primauté, preferiscono percorrere un’altra via, che risulta tuttavia affetta dallo stesso vizio logico-giuridico che ha guidato sostanzialmente l’intera decisione; ossia quello di ritenere che la disciplina della prescrizione in materia di frodi IVA non ricada nel campo di applicazione del diritto dell’Unione, con tutto ciò che ne consegue sul piano della sua qualifica e del relativo regime, rimessi alla potestà nazionale. Il risultato, evidentemente, non solo incide sugli equilibri giuridici e di potere tra due ordinamenti, quello interno e quello dell’Unione, ognuno dei quali rivendica spazi e valori fondanti. Ma, correlativamente, nemmeno sembra raggiungere adeguatamente lo scopo che pare prefiggersi. La pronuncia, infatti, rimette alla discrezionalità del giudice interno, di volta in volta chiamato alla regolamentazione giuridica della fattispecie, la valutazione avente ad oggetto la sussistenza o meno di requisiti di sufficiente determinatezza della fattispecie; e ciò secondo un paradigma che, con tutta evidenza, smentisce il principio generale di separazione dei poteri e di certezza delle soluzioni giuridiche che tanto la Consulta nella sua ordinanza di rimessione, quanto la Corte di giustizia nella conseguente decisione, volevano valorizzare. Il tutto, per di più, pagando un prezzo davvero altissimo, ossia la menomazione del principio generale della primauté.
Sarebbe stato probabilmente più corretto, piuttosto, ammettere che l’art. 325 TFUE non imponga sempre una disapplicazione delle norme italiane sulla prescrizione, precisando tuttavia che ciò possa non avvenire allorquando il “diritto” dello Stato membro, e non il giudice, definisca in termini chiari le circostanze in presenza delle quali una tale disapplicazione si possa dare.
VII. L’identità costituzionale e i controlimiti
Un altro dato pare piuttosto interessante, ossia quello del mancato espresso richiamo, tanto da parte della Corte di giustizia, quanto da parte della Consulta, al principio della “identità costituzionale” e, correlativamente, ai “controlimiti”. A voler essere più precisi, la Corte costituzionale parla dell’art. 4, par. 2, TUE solo nel corpo dell’ordinanza, e non già nei quesiti proposti ex art. 267 TFUE; e non cita i controlimiti, quanto piuttosto un presunto “impedimento costituzionale” che opererebbe rispetto all’applicazione del diritto dell’Unione. La Corte di giustizia, dal canto suo, non si preoccupa di riformulare i quesiti, come avrebbe potuto fare in considerazione della logica sottesa all’intera ordinanza di rimessione, e quindi non affronta in termini chiari la portata di una norma, l’art. 4 TUE, che è pur sempre una norma di diritto primario dell’Unione.[26]
E non lo fa, con comprensibile e condivisibile evidenza, perché la portata dell’art. 4, non solo nella giurisprudenza precedente del Kirchberg, ma anche nell’ottica complessiva dell’ordinamento dell’Unione, poco o nulla ha a che vedere con quella pretesa dalla Consulta. La Corte di giustizia, infatti, ha sempre inteso l’art. 4, par. 2, TUE e il criterio dell’identità nazionale ivi sancito, come parametro di legalità degli atti dell’Unione e criterio interpretativo per norme di diritto primario e di diritto secondario. Non risulta, invece, che “questo principio sia stato sinora invocato dinanzi alla Corte di giustizia dagli Stati membri o da un giudice nazionale per interpretare il diritto primario dell’Unione in maniera da giustificare il mantenimento di regole interne divergenti rispetto a quelle europee in un settore coperto da queste ultime quale la tutela degli interessi finanziari dell’Unione”.[27]
Un settore nell’ambito del quale, lo si è detto, esiste già un sistema specifico di tutela dei diritti fondamentali, quello previsto dalla Carta.
Diversamente, la Corte costituzionale voleva affermare l’idea per cui il primato avrebbe dovuto cedere il passo in ragione di un limite intrinseco allo stesso ordinamento dell’Unione, sancito da una sua norma di diritto primario e consistente nel rispetto delle tradizioni costituzionali dei singoli Stati.
Un argomento sottile, di sicuro, ma tuttavia non convincente. Come si può ragionevolmente ritenere che l’applicazione immediata di un termine di prescrizione più lungo comporti, per ciò stesso, una menomazione dell’identità costituzionale nazionale? Come si può confondere, insomma, la tutela dei diritti fondamentali, quand’anche ciò si atteggi secondo le forme previste dalla Costituzione, con l’identità costituzionale dello Stato?
E neppure la pronuncia oggi in commento parla espressamente di “controlimiti”, come probabilmente ci si sarebbe aspettati, anche solo per escluderne l’applicazione.
Anche questa omissione, invero, è condivisibile.
Infatti, se la Corte avesse inteso valorizzare una lettura costituzionalmente orientata dell’art. 4, par. 2, TUE e con essa dei cosiddetti controlimiti, non si sarebbe potuta esimere dall’effettuare una necessaria ed imprescindibile opera di bilanciamento tra almeno due valori, contenuti in due distinte norme della Costituzione. La prima sarebbe stata, ovviamente, il già citato art. 25, che sancisce il principio di legalità nella duplice forma dell’irretroattività e della sufficiente determinatezza della fattispecie; principio, secondo la nostra giurisprudenza costituzionale, suscettibile di subire in concreto una sensibile violazione a fronte della disapplicazione retroattiva delle norme interne sulla prescrizione e della conseguente applicazione al caso di un regime diverso rispetto a quello in vigore al momento dei fatti. La seconda sarebbe stata, invece, l’art. 11, che si ritiene ancora ad oggi la norma fondante il primato del diritto dell’Unione su quello nazionale.
Di fronte a queste due disposizioni, messe espressamente a confronto, difficilmente la Corte di giustizia avrebbe avuto il coraggio di considerare la seconda recessiva rispetto alla prima, con ciò aprendo peraltro la strada alla possibilità che qualunque forma di incidenza negativa del diritto dell’Unione non solo sul principio di legalità, ma anche in ipotesi su altri principi di rilievo costituzionale, assuma per ciò solo e per ciò stesso, rilievo. Si sarebbe trattato, infatti, di mettere in discussione le esigenze più nobili dell’integrazione europea, incluso il rispetto delle pronunce della Corte di giustizia.
VIII. Conclusioni
Come è stato rilevato da più parti prima dell’emanazione della sentenza M.A.S. e M.B. – tanto in sede giuspenalistica, quanto tra gli studiosi di diritto dell’Unione europea – non ci si aspettava di certo una pronuncia di chiusura, sulla falsariga di quanto suggerito dall’AG Bot; non ci aspettava nemmeno, tuttavia, una decisione così “generosa” nei confronti della Corte costituzionale italiana e dei principi costituzionali che la stessa ha messo in gioco, primo tra tutti il principio di legalità così come sancito dall’art. 25 e declinato dalla giurisprudenza costituzionale. I giudici di Lussemburgo hanno infatti inferto un colpo molto forte alla primazia dell’ordinamento dell’Unione, soprattutto in una materia così “sensibile” e foriera di molteplici problematiche applicative quale quella della tutela penale, legata agli interessi finanziari dell’Unione stessa.
Ci si sarebbe aspettati, piuttosto, una soluzione indicata come di “compromesso”, ferma nel tutelare le superiori esigenze di uniformità nell’interpretazione e nell’applicazione del diritto dell’Unione presso tutti gli Stati membri, e allo stesso tempo conciliante nei confronti di un consolidato approccio costituzionale interno che, a suo modo, rimane ancora oggi convinto di innalzare il livello di tutela previsto.
La Corte si sarebbe potuta concentrare in termini più netti, ad esempio, sul criterio della sufficiente determinatezza delle circostanze in cui il regime della prescrizione più favorevole all’imputato possa essere disapplicato. Ed è certo che, in un ipotetico bilanciamento tra l’interesse alla protezione degli interessi finanziari dell’Unione e il principio della certezza del diritto nell’ambito del sistema penale, quest’ultimo avrebbe prevalso.[28]
Ma, soprattutto, la Corte di giustizia avrebbe potuto valorizzare un’altra faccia del principio di legalità penale, su cui invero nemmeno la Consulta aveva adeguatamente posto l’accento, ossia quella della “riserva di legge”.
Così avrebbe potuto mettere in evidenza non solo, come ha fatto, che il giudice debba definire il tempo necessario alla prescrizione di un reato sulla base di regole sufficientemente determinate nei contenuti; ma, soprattutto, avrebbe dovuto rilevare come l’elaborazione di tali regole non possa essere sottoposta a discrezionali valutazioni pretorie di politica criminale, quanto piuttosto a indicazioni specifiche che possono provenire solo dal legislatore.
E, invece, i giudici dell’Unione hanno preferito deresponsabilizzarsi di questo delicato problema, ossia quello di delimitare la discrezionalità giudiziaria, evitando di definire, ad esempio, il requisito del numero considerevole di casi cui risulti subordinato l’obbligo di disapplicazione. E hanno rimesso invece questo arduo compito ad un soggetto, il giudice nazionale, che ha ancora meno titolo per farlo, e ciò proprio sulla base del tanto decantato principio di separazione dei poteri che rappresenta, in effetti, un baluardo del nostro sistema costituzionale.
D’altra parte, se la Corte avesse voluto, avrebbe certamente potuto utilizzare a tal fine il criterio suggeritole dall’Avvocato generale. Partendo dal presupposto per cui l’obbligo di disapplicazione imposto dalla pronuncia Taricco dovesse ritenersi fondato esclusivamente sulla natura del reato, e che spettasse al legislatore dell’Unione definire detta natura, l’AG Bot rilevava che
“nell’ambito dei negoziati finalizzati all’adozione della proposta di direttiva PIF, il legislatore dell’Unione ha definito la nozione di reati gravi lesivi degli interessi finanziari dell’Unione – reati che includono anche le frodi in materia di IVA – nel senso che essa comprende tutti i reati aventi un collegamento con il territorio di due o più Stati membri e che comportano un danno di importo totale superiore alla soglia di EUR 10 milioni”.[29]
Forse questo non sarebbe stato il migliore dei criteri possibili, ma almeno sarebbe stato un “criterio”, oggettivo, utile ad ancorare il calcolo della prescrizione a parametri certi e determinati dal punto di vista normativo, per di più rimanendo nell’alveo del diritto dell’Unione ed evitando così di rinunciare alla primazia di quest’ultimo sui diritti interni.
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European Papers, Vol. 3, 2018, No 1, European Forum, Insight of 8 January 2018, pp. 445-458
ISSN 2499-8249 - doi: 10.15166/2499-8249/185
* Ricercatore di Diritto dell’Unione europea, Università degli Studi di Messina, gvitale@unime.it.
[1] Corte di giustizia, sentenza dell’8 settembre 2015, causa C-105/14, Taricco et al. [GS]. Per tutti R. Mastroianni, Supremazia del diritto dell’Unione e “controlimiti” costituzionali: alcune riflessioni a margine del caso Taricco, in Diritto Penale Contemporaneo, 7 novembre 2016, www.penalecontemporaneo.it.
[2] Corte costituzionale italiana, ordinanza del 26 gennaio 2017, n. 24, per la quale A. Bernardi, Introduzione, in A. Bernardi (a cura di), I controlimiti. Primato delle norme europee e difesa dei principi costituzionali, Napoli: Jovene, 2017, p. VII et seq.
[3] Corte di giustizia, sentenza del 5 dicembre 2017, causa C-42/17, M.A.S. e M.B. [GS], per cui M. Bassini, O. Pollicino, Defusing the Taricco Bomb through Fostering Constitutional Tolerance: All Roads Lead to Rome, in Verfassungsblog-On Matters Constitutional, 5 dicembre 2017, www.verfassungsblog.de.
[4] M.A.S. e M.B. [GS], cit., par. 38.
[5] Ivi, par. 45.
[6] Corte di giustizia, sentenza del 26 febbraio 2013, causa C-617/10, Åkerberg Fransson, par. 47.
[7] M.A.S. e M.B. [GS], cit., par. 59.
[8] Ivi, par. 60.
[9] Conclusioni dell’AG Bot presentate il 18 luglio 2017, causa C-42/17, M.A.S. e M.B., su cui L. Daniele, Il seguito del caso Taricco: l’Avvocato generale Bot non apre al dialogo tra Corti, in European papers, 2017, Vol. 2, no 3, www.europeanpapers.eu, p. 987 et seq.
[10] Così, A. Ruggeri, Ultimatum della Consulta alla Corte di Giustizia su Taricco, in una pronunzia che espone, ma non ancora oppone, i contro limiti (a margine di Corte Cost. n. 24 del 2017), in Consulta Online, 27 gennaio 2017, www.giurcost.org, p. 81 et seq., secondo il quale “quello che la Consulta indirizza alla Corte di giustizia è […] un vero e proprio ultimatum”.
[11] Cfr. R. Mastroianni, La Corte costituzionale si rivolge alla Corte di giustizia in tema di “controlimiti” costituzionali: è un vero dialogo?, in Federalismi, 5 aprile 2017, www.federalismi.it, p. 9.
[12] Proprio in riferimento a norme italiane sulla prescrizione, Corte di giustizia: sentenza del 15 settembre 1998, causa C-231/96, Edis, par. 48; sentenza del 17 novembre 1998, causa C-228/96, Aprile, par. 43; sentenza del 19 maggio 2011, causa C-452/09, Iaia.
[13] Corte di giustizia, sentenza del 5 aprile 2016, cause riunite C-404/15 e C-659/15, Aranyosi e Căldăraru.
[14] R. Mastroianni, La Corte costituzionale si rivolge alla Corte di giustizia, cit., p. 7.
[15] Corte di giustizia, sentenza del 26 febbraio 2013, causa C-399/11, Melloni.
[16] Così E. Cannizzaro, Sistemi concorrenti di tutela dei diritti fondamentali e controlimiti costituzionali, in A. Bernardi (a cura di), I controlimiti, cit., p. 45 et seq.
[17] Ivi, p. 51.
[18] E. Cannizzaro, Il diritto dell’integrazione europea, Torino: Giappichelli, 2017, p. 122 et seq.
[19] M.A.S. e M.B. [GS], cit., par. 57.
[20] Corte costituzionale italiana, ordinanza n. 24/2017, par. 8.
[21] Ivi, questione pregiudiziale n. 1.
[22] Ivi, par. 9.
[23] Ibidem.
[24] Corte di giustizia, sentenza del 3 maggio 2007, causa C-303/05, Advocatenvoor de wereld, par. 50.
[25] Corte costituzionale italiana, ordinanza n. 24/2017, par. 9.
[26] Norma che “è stata intesa anche in dottrina come codificazione europea della teoria dei controlimiti, nel senso di giustificare già al livello del diritto primario dell’Unione un argine interno all’applicazione di regole europee […] capaci di produrre un vulnus all’identità nazionale di un singolo Stato”; R. Mastroianni, La Corte costituzionale si rivolge alla Corte di giustizia, cit., p. 11. Vedesi anche M. Condinanzi, I controlimiti come sintesi ideale tra primato da affermare e identità nazionale da rispettare, in B. Nascimbene (a cura di), Costa/Enel: Corte costituzionale e Corte di giustizia a confronto, cinquant’anni dopo, Milano: Giuffrè, 2015, p. 199 et seq.
[27] Cfr. R. Mastroianni, La Corte costituzionale si rivolge alla Corte di giustizia, cit., p. 13.
[28] Così riteneva, ancor prima dell’emanazione dell’odierna sentenza, L. Daniele, La sentenza Taricco torna davanti alla Corte di giustizia UE: come decideranno i giudici europei?, in Eurojus.it, 10 aprile 2017, www.rivista.eurojus.it.
[29] Conclusioni dell’AG Bot, M.A.S. e M.B., cit., par. 117.