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Abstract: The Insight focuses on the impact of international human rights law and refugee law on the interpretation of the responsibility of coastal States for the coordination of rescue activities within their own SAR regions established under the SAR Convention. This analysis aims to investigate whether the interaction between these different legal frameworks produces a substantial overlapping between the extension of the search and rescue areas and the ones in which the coastal States can exercise a form of extraterritorial jurisdiction. According to the analysis conducted, the coordination of search and rescue operations, which includes the obligation to disembark survivors in a place of safety, seems to entail the exercise of an effective power over survivors and, consequently, the (automatic) recognition of extraterritorial jurisdiction of these States within their SAR regions.
Keywords: SAR Convention – SAR regions – coordination of search and rescue operations – extraterritorial jurisdiction – human rights – international responsibility.
I. Introduzione
L’applicazione del diritto del mare alle operazioni di soccorso programmate nel contesto dei flussi migratori misti provenienti dalla Libia e diretti in Europa lungo la rotta mediterranea ha riportato l’attenzione della dottrina su talune lacune e incongruenze di una disciplina nata per rispondere ad esigenze diverse rispetto a quelle successivamente emerse. La dottrina ha esaminato molti di questi aspetti relativi in particolare, alle molteplici tensioni che sorgono dall’interazione tra diritto del mare, diritto internazionale dei diritti umani e diritto dei rifugiati.[1]
Il presente contributo intende soffermarsi su un particolare aspetto di tale interazione finora rimasto relativamente sullo sfondo: quello dell’estensione geografica della giurisdizione dello Stato costiero. Ci si propone, in altri termini, di indagare se l’interazione tra diritto del mare, diritto internazionale dei diritti umani e diritto dei rifugiati produca una sostanziale sovrapposizione tra l’estensione dell’area di Search and Rescue (zona SAR) e quella nella quale lo Stato costiero può esercitare una forma di giurisdizione extraterritoriale.
Si vuole far riferimento, in particolare, alla nozione di giurisdizione extraterritoriale sviluppata nell’ambito dei sistemi internazionali di tutela dei diritti umani, che, nell’economia generale di questo breve contributo, è utile richiamare solo in via sintetica. Come noto, in questo ambito il termine giurisdizione non si riferisce alla “state regulation of the conduct of persons, natural or legal, and the consequences of their actions under domestic law”, bensì “denotes a certain kind of power that a state exercises over a territory and its inhabitants, i.e. it is spatial in nature”.[2] La stessa Corte europea dei diritti dell’uomo, ricorda che la giurisdizione dello Stato ai sensi dell’art. 1 CEDU è primarily territorial.[3]
Tuttavia, il carattere principalmente territoriale della nozione di giurisdizione nell’ambito dei trattati sui diritti umani, intesa nel senso dell’esercizio di un controllo su un territorio, non impedisce che tali trattati possano trovare applicazione extraterritoriale. In tale senso si sono espressi i principali organi internazionali di tutela.[4] La prova dell’esercizio di un potere giurisdizionale ai fini dell’applicazione dei trattati dei diritti umani è di natura fattuale[5] ed è soggetta ad una valutazione legata alle circostanze del caso concreto.[6] Anche alcune norme a tutela dei rifugiati, ed in particolare il divieto di refoulement, sono applicate senza alcuna delimitazione di tipo territoriale; in tale contesto, dovrebbero risultare applicabili i medesimi criteri sviluppati nell’ambito del diritto internazionale dei diritti umani per determinare l’esistenza di un esercizio di giurisdizione da parte di uno Stato.[7]
In linea di principio, la Corte europea ha riconosciuto che “as an exception to the principle of territoriality, a Contracting State’s jurisdiction under Article 1 may extend to acts of its authorities which produce effects outside its own territory” e con specifico riferimento all’alto mare essa ha ripetutamente riconosciuto che “the special nature of the maritime environment cannot justify an area outside the law where individuals are covered by no legal system capable of affording them enjoyment of the rights and guarantees protected by the Convention which member states have undertaken to secure to everyone within their jurisdiction”.[8] Quali però i criteri sviluppati in tali contesti per stabilire se l’individuo che lamenta la violazione dei propri diritti si trovi sotto la giurisdizione (extraterritoriale) di uno Stato? Questi sono principalmente due: l’esercizio effettivo di un potere (o controllo) su una persona (ratione personae) e l’esercizio di un potere effettivo di controllo sul territorio di un altro Stato (ratione loci).[9]
Si pone, quindi, il problema di determinare se l’esercizio del potere di coordinamento da parte dello Stato costiero integri un’ipotesi di esercizio de jure e/o de facto di giurisdizione alla luce della prassi sinteticamente ripercorsa.
II. Il coordinamento dello Stato costiero nella propria zona SAR
II.1. Il quadro normativo
Per tentare di dare una possibile risposta al quesito posto il ragionamento si svolgerà lungo le seguenti tappe: dopo una sintetica ricostruzione del quadro normativo di riferimento, si passerà ad esaminare come l’interazione tra diritto del mare, diritto internazionale dei diritti umani e diritto dei rifugiati abbia contribuito a ridisegnare il contenuto dell’obbligo di coordinamento determinando una ridefinizione delle responsabilità statali che, a parere di chi scrive, potrebbero riflettersi in un’estensione in termini spaziali della giurisdizione extraterritoriale degli Stati costieri fino a coprire l’intera zona di search and rescue.
Il tema del coordinamento delle operazioni di salvataggio in mare è, infatti, strettamente legato alla questione della regionalizzazione del sistema internazionale di ricerca e soccorso regolata dall’ultima versione della Convenzione internazionale sulla ricerca e il soccorso marittimi (di seguito, Convenzione SAR).[10] Quest’ultima stabilisce che in adempimento dell’obbligo di assicurare un servizio di ricerca e di salvataggio gli Stati costieri debbano istituire “sufficient search and rescue regions […] within each sea area”.[11] Questa previsione è il risultato di un accordo trovato tra le parti contraenti al fine di superare le discussioni in merito a quale di essi fosse tenuto a intervenire di fronte a concrete situazioni di pericolo.[12] Il mare viene così suddiviso in una serie di search and rescue region – comunemente denominate zone SAR – definite come aree di “defined dimensions associated with a rescue co-ordination centre within which search and rescue services are provided”.[13] L’istituzione di una zona SAR deve essere effettuata di accordo con gli Stati coinvolti e la sua delimitazione “is not related to and shall not prejudice the delimitation of any boundary between States”.[14]
Ai sensi della Convenzione SAR dall’istituzione della zona SAR discendono per lo Stato costiero solo obblighi e in particolare, per quanto qui interessa, la responsabilità primaria del coordinamento delle operazioni di ricerca e soccorso che si svolgono al suo interno.[15] Tale responsabilità si estende dal momento della ricezione delle segnalazioni di pericolo (distress) fino a quando i “survivors assisted are disembarked from the assisting ship and delivered to a place of safety” (corsivo aggiunto)[16] dove le operazioni possono considerarsi concluse. L’individuazione del luogo più appropriato per procedere con lo sbarco delle persone salvate è demandata al centro di coordinamento competente,[17] che dovrà tenere conto delle circostanze particolari del caso e delle linee guida sviluppate dall’Organizzazione Internazionale Marittima (IMO).[18] In ogni caso, le parti coinvolte devo fare in modo che lo sbarco avvenga “as soon as reasonably practicable”.[19] La Convenzione SAR tuttavia non definisce la nozione di place of safety (POS).
L’istituzione della zona SAR delimita dunque un dentro e un fuori da cui discendono conseguenze rilevanti in termini di responsabilità per lo Stato costiero. A differenza delle acque interne, del mare territoriale, della zona contigua, della zona economica esclusiva e della piattaforma continentale, la zona SAR non è dunque una zona marina all’interno della quale lo Stato costiero di riferimento esercita la propria sovranità o la propria giurisdizione; dall’individuazione di tale area discendono per lo Stato solo obblighi e responsabilità e non anche l’esercizio di diritti.[20]
II.2. Obbligo di coordinamento e tutela dei diritti umani dei naufraghi
Quanto detto ci permette di porre in evidenza sin da subito come l’interpretazione dell’obbligo di coordinamento non possa prescindere dall’esame della nozione di luogo sicuro in quanto obiettivo ultimo dello Stato costiero responsabile per la zona SAR è quello di condurre in un tempo ragionevole i naufraghi in un POS di sbarco.
Ed è proprio in quest’ambito che il diritto internazionale dei diritti umani e il diritto dei rifugiati hanno avuto un’influenza determinante nel riscostruire alcuni criteri utili a definire la nozione di place of safety e intorno ai quali si è formato un certo consenso. Ciò emerge con chiarezza già delle indicazioni interpretative fornite dall’IMO. Il POS è quindi il luogo dove la vita dei sopravvissuti non è più in pericolo e i loro bisogni primari, come cibo, alloggio e necessità mediche, possono essere soddisfatti.[21] La valutazione del POS deve, inoltre, essere condotta caso per caso tenendo conto di diversi fattori tra i quali, da una parte, la necessità di evitare territori dove “the lives and freedoms of those alleging a well-founded fear of persecution would be threatened” e nei quali i naufraghi siano esposti al rischio di torture o trattamenti inumani e/o degradanti (divieto di refoulement),[22] e, dall’altra, che venga verificato il rispetto dei diritti fondamentali, non limitando tale tutela alla sola integrità fisica delle persone.[23] Eventuali valutazioni relative allo status dei sopravvissuti o altre questioni non inerenti ai soccorsi possono essere affrontate solo una volta che le persone siano sbarcate.[24]
La nave che ha effettuato i soccorsi può essere considerata solo un POS temporaneo.[25] A tale proposito la Corte di cassazione italiana ha recentemente affermato che non può essere qualificata come luogo sicuro “una nave in mare che, oltre ad essere in balia degli eventi metereologici avversi, non consente il rispetto dei diritti fondamentali delle persone soccorse”.[26]
Inoltre, il Commissario per i diritti umani del Consiglio d’Europa, in una raccomandazione del giugno 2019 evidenza la necessità che la scelta del luogo di sbarco sia fondata su ulteriori “human rights-based considerations” che includano “the extent to which disembarked persons could be subjected to arbitrary deprivation of liberty, or whether they would be vulnerable to trafficking or exploitation”.[27]
L’esercizio del dovere di coordinamento ha dunque conseguenze dirette sulla tutela dei diritti fondamentali dei naufraghi e sembra incontrare un limite invalicabile nel rispetto del diritto internazionale dei diritti umani e del diritto dei rifugiati. Oltre a dare forma concreta al dovere di salvare le vite in mare, il coordinamento deve condurre tempestivamente allo sbarco delle persone in un luogo sicuro dove siano tutelati i loro diritti fondamentali e sia loro permesso di esercitare il diritto di chiedere asilo. Appare difficile in questo contesto negare – sia da un punto di vista logico che giuridico – che il coordinamento si traduca nell’esercizio di un controllo effettivo sui naufraghi che rende lo Stato costiero internazionalmente responsabile per l’eventuale violazione dei diritti fondamentali dei naufraghi posti sotto tale controllo.
II.3. Obbligo di coordinamento e responsabilità internazionale dello Stato costiero
Nel tentativo di rafforzare la conclusione appena introdotta proviamo ad esaminare due possibili scenari. In primo luogo, ci si domanda quali siano le conseguenze per lo Stato responsabile per la zona SAR ove hanno avuto luogo i soccorsi nel caso in cui a seguito del salvataggio dei naufraghi si entri in una situazione di stallo in cui non venga fornito tempestivamente, direttamente o in cooperazione con altri paesi, un place of safety dove concludere le operazioni.
È utile qui ricordare che, sebbene nella Convenzione SAR non sia stato codificato alcun obbligo di apertura dei propri porti, l’IMO ha raccomandato agli Stati che coordinano le operazioni di permettere l’accesso al proprio territorio quando la cooperazione con gli altri Stati non abbia reso possibile determinare un diverso luogo di sbarco.[28] Ma se la situazione di stallo dovesse prolungarsi insorgerebbe la responsabilità internazionale dello Stato titolare del coordinamento per non aver permesso lo sbarco sul proprio territorio? Sebbene sia stato sostenuto da una parte della dottrina che al momento non sarebbe possibile ricostruire un vero e proprio obbligo di apertura dei propri porti,[29] c’è chi non esclude che il rifiuto di accogliere in porto una nave potrebbe configurare una forma di responsabilità internazionale dello Stato costiero.[30]
Come già evidenziato in dottrina, alcuni spunti utili sono ricavabili dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo. Viene in rilievo qui il caso Women on Waves[31] in cui la Corte europea ha riconosciuto la giurisdizione del Portogallo sulla base del diniego di ingresso nelle proprie acque territoriali all’imbarcazione delle attiviste per il diritto all’aborto che lamentavano, così, la violazione del proprio diritto di espressione per non aver potuto portare avanti la campagna a favore della decriminalizzazione dell’interruzione volontaria di gravidanza. Nel caso Kebe,[32] inoltre, il criterio di collegamento individuato dalla Corte europea per affermare la giurisdizione dello Stato convenuto, l’Ucraina, non è stato, come ci si sarebbe aspettati, la circostanza che la nave battente bandiera maltese a bordo della quale si trovava il ricorrente si trovasse attraccata in un suo porto (quindi all’interno del suo territorio), bensì esso è stato individuato nella capacità dell’Ucraina di decidere se autorizzarne o meno l’ingresso, circostanza da cui dipendeva anche l’esercizio di diversi diritti tutelati dalla Convenzione.[33] Il divieto di entrare nelle proprie acque territoriali e/o nei propri porti da parte dello Stato costiero che coordina l’attività dell’imbarcazione di salvataggio ha sicuramente come effetto immediato, soprattutto quando la situazione di stallo di prolunga nel tempo aggravando le condizioni materiali e psicologiche delle persone soccorse, quello di impedire l’esercizio di diversi diritti fondamentali, nonché del diritto di richiedere asilo, e sembra poter integrare, pertanto, un esercizio di giurisdizione extraterritoriale alla luce dei suddetti principi.
In questa linea interpretativa sembra potersi collocare il provvedimento del Giudice delle indagini preliminari del Tribunale di Agrigento, confermata dalla citata sentenza della Corte di cassazione del gennaio 2020, di non convalida dell’arresto in flagranza del capitano della nave Sea Watch 3 Carola Rackete a seguito della violazione del divieto di ingresso nelle acque territoriali italiane stabilito con provvedimento adottato dal Governo italiano. Il GIP dopo aver riconosciuto la scriminante dell’adempimento di un dovere – il dovere di salvare le vite in mare che si esaurisce solo con lo sbarco delle persone in un luogo sicuro – ha esplicitamente escluso l’idoneità dei provvedimenti ministeriali in tema di chiusura dei porti nazionali a comprimere gli obblighi gravanti sul capitano della nave e sullo Stato ai sensi delle normative internazionali sovraordinate.[34]
Il Governo italiano potrebbe avere avuto in mente le suddette argomentazioni nell’adottare un recente e criticato[35] decreto interministeriale del 7 aprile 2020 in tema di sbarco delle persone soccorse sul territorio nazionale.[36] Con tale provvedimento viene stabilito, in risposta alla necessità di predisporre misure straordinarie di prevenzione del rischio del contagio con riferimento “ai casi di soccorso effettuati da parte di unità battenti bandiera straniera che abbiano condotto le operazioni al di fuori dell’area SAR italiana, in assenza di coordinamento dell’IMRCC Roma [corsivo aggiunto]”, che per tutto il periodo dell’attuale emergenza sanitaria i porti italiani non possono essere considerati un place of safety “per i casi di soccorso effettuati da parte di unità navali battenti bandiera straniera al di fuori dell’area SAR italiana”.[37] Dunque con tale provvedimento il Governo italiano ha inteso fornire un principio di massima da applicare ai soccorsi effettuati da imbarcazioni straniere e strettamente legato al luogo in cui le operazioni vengono condotte: i porti italiani non possono considerarsi luoghi sicuri qualora il salvataggio sia condotto da una nave non battente bandiera italiana nel caso in cui esso avvenga al di fuori dell’area SAR italiana. La distinzione rimarcata dal provvedimento sembra fondarsi sull’implicito riconoscimento da parte delle Autorità italiane delle diverse e più ampie responsabilità incombenti sullo Stato nel caso in cui i soccorsi abbiano luogo nella propria zona SAR e/o sotto il proprio coordinamento; sulla consapevolezza, in altri termini, dell’impossibilità per l’Italia di sottrarsi in tali ultime circostanze alla responsabilità di fornire un luogo sicuro di sbarco senza incorrere in violazioni del diritto internazionale. Difficilmente si riuscirebbe, altrimenti, a ricondurre a una logica la summenzionata distinzione.
Diverso invece è il caso in cui i naufraghi siano riportati in un luogo non sicuro. In questa seconda ipotesi, è difficile, alla luce di quanto fino a questo momento detto, poter concludere in modo diverso rispetto al riconoscimento di una responsabilità internazionale dello Stato che coordina le operazioni per eventuali violazioni dei diritti fondamentali e, se si tratta di richiedenti asilo, del diritto dei rifugiati. E questo non esclusivamente nel caso in cui i naufraghi soccorsi siano stati imbarcati su una nave battente bandiera dello Stato che gestisce le operazioni, secondo un principio già stabilito dalla nota sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo nel caso Hirsi Jamaa e altri c. Italia,[38] ma anche nelle diverse situazioni in cui la relazione tra Stato costiero responsabile del coordinamento, imbarcazioni coinvolte nei salvataggi e persone soccorse è più sfumata.[39]
III. L’obbligo di coordinamento nella prassi recente
La proposta interpretativa qui avanzata inizia a trovare dei riscontri nella prassi giudiziaria ed è oggi al vaglio di alcuni organismi internazionali di tutela dei diritti fondamentali.
Una ricostruzione unitaria del rapporto tra dovere di coordinamento, obbligo di sbarco in un posto sicuro e tutela dei diritti fondamentali della persona ci viene fornita dal Tribunale di Trapani nella sentenza con cui vengono assolti alcuni migranti – soccorsi dall’imbarcazione privata Vos Thalassa battente bandiera italiana – per le minacce e aggressioni poste in essere nei confronti dell’equipaggio della nave che li aveva salvati; tali condotte erano state poste in essere dai migranti una volta compreso che l’imbarcazione sulla quale si trovavano li stava riconducendo in Libia.[40]
Con tale provvedimento i giudici, in primo luogo, ribadiscono il nesso tra coordinamento e individuazione del luogo sicuro, chiarendo, in linea con l’interpretazione sopra richiamata, che quest’ultimo termine “si connota anche di altri requisiti [ulteriori rispetto alla protezione fisica] legati alla necessità di non violare i diritti fondamentali delle persone, sanciti dalle norme internazionali dei diritti umani […] impedendo che avvengano ‘sbarchi’ in luoghi ‘non sicuri’, che si tradurrebbero in aperte violazioni del principio di non-respingimento, del divieto di ‘espulsioni collettive’ e, più in generale, pregiudizievoli dei diritti di ‘protezione internazionale’ accordati ai rifugiati (in fatto e/o in diritto) e richiedenti asilo”. Ne consegue per i giudici di Trapani che “in tale contesto, secondo i consolidati orientamenti della giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, lo Stato che ha coordinato il soccorso dei migranti/naufraghi/rifugiati e che deve […] individuare il ‘luogo sicuro’ di sbarco […] esercita sulle imbarcazioni con a bordo i migranti poteri giurisdizionali idonei ad incidere sul godimento effettivo di quei diritti da parte delle persone che sono a bordo e, quindi, più in generale, ha giurisdizione (ai sensi del diritto internazionale con le connesse responsabilità) sulle persone a bordo”.[41]
L’obbligo di coordinamento, che trova la sua realizzazione nello sbarco dei migranti in un luogo sicuro, deve dunque essere adempiuto nel rispetto del diritto internazionale dei diritti umani e del diritto dei rifugiati e comporta un controllo assimilabile all’esercizio di giurisdizione quanto meno ai fini dell’applicazione della suddetta normativa. Sulla medesima conclusione si fondano le controversie che sono state recentemente portate all’attenzione, rispettivamente, della stessa Corte europea e del Comitato per i diritti umani delle Nazioni Unite.[42] Ai fini della nostra analisi, è interessante qui richiamare non tanto le argomentazioni della difesa, ma alcuni passaggi delle memorie presentate da terzi primo dei due casi, S.S. e altri c. Italia, pendente dinanzi alla Corte europea dei diritti dell’uomo.[43] Con una interessante memoria presentata ai sensi dell’art. 36 del Regolamento della Corte europea il Commissario per i diritti umani del Consiglio d’Europa, dopo aver ribadito la necessità di un’interpretazione sistematica del diritto del mare con il diritto internazionale dei diritti umani e del diritto dei rifugiati ed esaminato gli obblighi dello Stato costiero che si trovi a coordinare operazioni di soccorso, sottolinea che “a member state engaged in the coordination of a rescue operation fully retains its own responsibility for the preservation of life at sea, the disembarkation of survivors to a place of safety and respect for its human rights obligations, including the prohibition of refoulement”.[44]
In linea con queste conclusioni si è espresso un gruppo di ONG con una seconda memoria dove si sostiene che “jurisdiction under article 1 ECHR in search and rescue cases on the high seas must be interpreted, under article 53 ECHR, in the light of the international maritime law applicable to Italy”, cosicché “[…] taking into account international maritime law, a sufficient degree of effective control or authority exists over the actors on the high seas to establish jurisdiction under article 1 ECHR [corsivo aggiunto]”. Gli elementi rilevanti del diritto internazionale del mare sono: “the shipmasters’ duties and the cumulative effect that the control the Search and Rescue Mission Coordinator has on shipmasters’ actions during SAR operations. This includes alerting ships in likely search areas for rescue, coordinating SAR operations, and identifying a place of safe disembarkation”.[45]
IV. Un tentativo di sintesi
L’ipotesi da cui si è partiti è che una interpretazione ampia dell’obbligo di coordinamento possa comportare un’implicazione giuridicamente assai rilevante, vale a dire il riconoscimento dell’applicazione extraterritoriale dei trattati di tutela dei diritti umani e del diritto dei rifugiati nell’ambito della zona SAR, con le conseguenze che ne deriverebbero in termini di responsabilità per lo Stato costiero competente. Al fine di verificare la validità di tale ipotesi di partenza il ragionamento si è svolto seguendo le seguenti tappe: in primo luogo, si è ricostruita brevemente la normativa regolante le operazioni di search and rescue, chiarendo il contenuto degli obblighi derivanti direttamente dall’istituzione di una zona SAR. Al suo interno, lo Stato costiero competente ha la responsabilità primaria di coordinamento delle operazioni di salvataggio e di cooperazione con gli altri paesi per l’individuazione del luogo sicuro di sbarco. Si è visto, inoltre, che l’interpretazione dell’obbligo di coordinamento non possa prescindere dall’esame della nozione di place of safety (POS) in quanto il suo adempimento coincide con il momento dello sbarco dei naufraghi soccorsi. Questo deve essere un luogo dove non vengano messi a repentaglio i diritti fondamentali dei naufraghi e dove questi non corrano il rischio di persecuzioni, torture e/o trattamenti inumani o degradanti ovvero dove corrano il pericolo di essere trasferiti in Paesi dove vengano sottoposti alle suddette violazioni. Inoltre, le operazioni di soccorso devono necessariamente concludersi in un breve periodo di tempo con la conseguenza che, ove non sia individuabile un diverso luogo di sbarco, questo debba avvenire sul territorio dello Stato che sta coordinando le operazioni. L’eventuale violazione dei diritti umani dei naufraghi eventualmente derivante dal prolungato stallo delle operazioni di soccorso potrebbe tradursi nel riconoscimento della responsabilità del suddetto Stato.[46]
L’equiparazione dell’adempimento dell’obbligo di coordinamento con l’esercizio di un potere effettivo sulle imbarcazioni e le persone affermata con chiarezza dal Tribunale di Trapani e da parte della citata dottrina, è la tesi al centro dei ricorsi pendenti dinanzi, rispettivamente, alla Corte europea dei diritti dell’uomo e al Comitato dei diritti umani delle Nazioni Unite e, dunque, attualmente al vaglio di questi due organismi internazionali di tutela. Se, come auspicato da parte della dottrina,[47] tale interpretazione dovesse essere confermata, si potrebbe aprire la strada per un riconoscimento automatico della giurisdizione statale nell’ambito della propria zona SAR. In altre parole, si potrebbe configurare una presunzione di giurisdizione da parte dello Stato costiero nella propria zona SAR di competenza al cui interno la responsabilità del coordinamento sorge automaticamente al momento della ricezione della chiamata di emergenza e si esaurisce solo nel momento dello sbarco.[48]
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European Papers, Vol. 5, 2020, No 1, European Forum, Insight of 26 May 2020, pp. 375-386
ISSN 2499-8249 - doi: 10.15166/2499-8249/359
* Dottore di ricerca, Sapienza Università di Roma, micol.barnabo@uniroma1.it.
[1] Cfr., tra gli altri, M. Giuffré, Access to Asylum at Sea? Non-refoulement and a Comprehensive Approach to Extraterritorial Human Rights Obligations, in V. Moreno-Lax, E. Papastavridis (eds), 'Boat Refugees' and Migrants at Sea: A Comprehensive Approach, Leiden, Boston: Brill Nijhoff, 2017, p. 248 et seq.; J. Abrisketa Uriarte, El Derecho del Mar y los Derechos Humanos, in G. Oanta (dir.), El Derecho del Mar y las Personas y Grupos Vulnerables, 2018, Barcelona: Librería Bosch, p. 29 et seq.; D. Vitiello, Il diritto di cercare asilo ai tempi dell’Aquarius, in SidiBlog, 29 giugno 2018, www.sidiblog.org; A. Saccucci, Il divieto di espulsioni collettive di stranieri in situazioni di emergenza migratoria, in Diritto internazionale e diritti umani, 2018, p. 29 et seq.; A. Del Guercio, Il caso della Sea-Watch 3 tra obblighi di diritto del mare, diritti umani e tutela dell’infanzia, in Diritto internazionale e diritti umani, 2019, p. 331 et seq.; S. Trevisanut, Is there a Right to Be Rescued at Sea? A Constructive View, in Question of International Law, 23 June 2014, www.qil-qdi.org; I. Papanicolopulu, Le operazioni di search and rescue: problemi e lacune del diritto internazionale, in Rivista trimestrale di diritto pubblico, 2019, p. 507 et seq.
[2] Per un esame delle differenze tra nozione di giurisdizione nell’ambito della tutela dei diritti umani e del diritto internazionale generale si veda, tra gli altri, M. Milanovic, From Compromise to Principle: Clarifying the Concept of State Jurisdiction in Human Rights Treaties, in Human Rights Law Review, 2008, p. 429.
[3] Cfr. Consiglio d’Europa, Guide on Article 1 of the European Convention on Human Rights, 2019.
[4] Comitato per i diritti umani delle Nazioni Unite, General Comment No. 31 [80] del 20 marzo 2004, The Nature of the General Legal Obligation Imposed on States Parties to the Covenant, U.N. Doc. CCPR/C/21/Rev.1/Add.13, 10; Corte internazionale di giustizia, Legal Consequences of the Construction of a Wall in the Occupied Palestinian Territory, Advisory Opinion del 9 luglio 2004, par. 109; Corte europea dei diritti dell’uomo, sentenza del 23 marzo 1995, ricorso n. 15318/89, Loizidou c. Turchia (obiezioni preliminari) [GC], par. 59 et seq.
[5] M. Milanovic, From Compromise to Principle, cit., p. 447.
[6] Cfr., tra le altre, Corte europea dei diritti dell’uomo, sentenza del 7 luglio 2011, ricorso n. 55721/07, Al-Skeini e altri c. Regno Unito [GC], par. 132.
[7] Cfr. J.C. Hathaway, T. Gammeltoft-Hansen, Non-Refoulement in a World of Cooperative Deterrence, in Columbia Journal of Transnational Law, 2015, p. 257.
[8] Corte europea dei diritti dell’uomo, sentenza del 23 febbraio 2012, ricorso n. 27765/09, Hirsi Jamaa e altri c. Italia [GC], par. 178; nello stesso senso, Corte europea dei diritti dell’uomo, sentenza del 29 marzo 2010, ricorso n. 3394/03, Medvedyev e altri c. Francia, par. 81.
[9] Cfr. Consiglio d’Europa, Guide on Article 1, cit., p. 12. Accanto a questi, la dottrina più recente ne ha individuato un terzo: l’esercizio di un pubblico potere al di fuori del proprio territorio. Tale ultimo criterio sarebbe ricavabile dalla stessa giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo chiamata, nel citato caso Al-Skeini, e la sua applicazione alle prassi di gestione dei flussi migratori permetterebbe di colmare vuoti di tutela che potrebbero derivare dall’applicazione del criterio dell’esercizio effettivo di un potere (o di un controllo) sopra le persone o su un territorio straniero. Cfr. J.C. Hathaway, T. Gammeltoft-Hansen, Non-Refoulement in a World of Cooperative Deterrence, cit., p. 477.
[10] Convenzione internazionale sulla ricerca e il salvataggio marittimo adottata ad Amburgo il 27 aprile 1979 ed entrata in vigore il 22 giugno 1985.
[11] Par. 2.1.3. dell’Allegato alla Convenzione SAR.
[12] I. Papanicolopulu, The Duty to Rescue at Sea, in Peacetime and in War: A General Overview, in International Review of the Red Cross, 2016, p. 491 et seq.
[13] Par. 1.3.4 dell’Allegato alla Convenzione SAR. Il precedente par. 1.3.3. definisce, a sua volta, i servizi di ricerca e soccorso come “[t]he performance of distress monitoring, communication, co-ordination and search and rescue functions, including provision of medical advice, initial medical assistance, or medical evacuation, through the use of public and private resource including co-operating aircraft, vessels and other craft and installations”. L’obbligo di operare sistemi di ricerca e salvataggio è oggi codificato in termini generali anche dalla Convenzione della Nazioni Unite sul diritto del mare, adottata a Montego Bay il 10 dicembre 1982 ed entrata in vigore il 16 novembre 1994 (art. 98, par. 2) e ribadito, con alcune specificazione, nella Convenzione per la salvaguardia della vita in mare, adottata il 10 novembre 1974 ed entrata in vigore il 25 maggio 1980 (Regulation 15).
[14] Parr. 2.1.4 e 2.1.7 dell’Allegato alla Convenzione SAR.
[15] Cfr. ivi, par. 3.1.9. Ad alcune condizioni, tale responsabilità può estendersi anche al di fuori di essa, in questi casi la responsabilità del coordinamento è solo temporanea e deve essere trasferita allo Stato costiero competente per la specifica zona SAR, Cfr. IMO, risoluzione MSC.167(78) del 20 maggio 2004, Guidelines on the Treatment of Persons Rescued at Sea, par. 6.7 dell’Allegato.
[16] Ibidem (corsivo aggiunto).
[17] Cfr. par. 4.8.5 dell’Allegato alla Convenzione SAR.
[18] Cfr. ivi, par. 3.1.9.
[19] Ibidem.
[20] Cfr. I. Papanicolopulu, Le operazioni di search and rescue, cit., p. 513. Come la stessa autrice ricorda, diversa è la questione relativa all’esercizio di diritti in alcune porzioni dell’area SAR coincidenti con specifiche zone marine. In senso contrario, si veda, T.E. Aalberts,T. Gammeltoft-Hansen, Sovereignty at Sea: the Law and Politics of Saving Lives in mare liberum, in Journal of International Relations & Development, 2014, p. 445.
[21] Cfr. IMO, Guidelines on the Treatment of Persons Rescued at Sea, cit., par. 6.12 dell’Allegato.
[22] Cfr. ivi, par. 6.15 e 6.17 dell’Allegato; IMO e UNHCR, Rescue at Sea. A Guide to Principles and Pratice as Applied to Refugees and Migrants, 2015. In tema, si veda, I. Papanicolopulu, G. Baj, Controllo delle frontiere statali e respingimenti nel diritto internazionale e nel diritto del mare, in Diritto, Immigrazione e Cittadinanza, 2020, www.dirittoimmigrazionecittadinanza.it.
[23] Cfr., tra gli altri, International Maritime Organization (IMO), FAL.3/Circ.194 del 22 gennaio 2009, Principles Relating to Administrative Procedures for Disembarking Persons Rescued at Sea, par. 2.5.; Parliamentary Assembly of the Council of Europe Resolution 1821 (2011) on the interception and rescue at sea of asylum-seekers, refugees and irregular migrants, par. 5.2.
[24] IMO, Guidelines on the Treatment of Persons Rescued at Sea, cit., par. 6.19 e 6.20 dell’Allegato. Nello stesso senso, vedi anche, IMO, Principles, cit.
[25] Cfr. IMO, Guidelines on the treatment of persons rescued at sea, cit., par. 6.12 dell’Allegato.
[26] Corte di cassazione, sentenza n. 6626 del 16 gennaio 2020.
[27] Commissario per i diritti umani del Consiglio d’Europa, Lives Saved. Rights Protected. Bridging the Protection Gap for Refugees and Migrants in the Mediterranean, giugno 2019, p. 27 et seq.
[28] IMO, Principles Relating to Administrative Procedures, cit., par. 2.3.
[29] Cfr. sul tema, tra gli altri, E. Papastavridis, Recent Non-Entrée Policies in the Central Mediterranean and Their Legality: A New Form of Refoulement?, in Diritto internazionale e diritti umani, 2018, p. 493 et seq.
[30] Cfr. Società italiana di diritto internazionale, sidigimare.wordpress.com, p. 2.
[31] Corte europea dei diritti dell’uomo, sentenza del 3 febbraio 2009, ricorso n. 31276/05, Women on Waves e altri c. Portogallo.
[32] Corte europea dei diritti dell’uomo, sentenza del 12 gennaio 2017, ricorso n. 12552/12, Kebe e altri c. Ucraina.
[33] Cfr. F. De Vittor, Responsabilità degli Stati e dell’Unione europea nella conclusione e nell’esecuzione di “accordi” per il controllo extraterritoriale della migrazione, in Diritto internazionale e diritti umani, 2018, pp. 21-22. Secondo l’autrice, l’applicazione del principio stabilito nel caso Kebe alle operazioni di salvataggio in mare determinerebbe l’esistenza della giurisdizione dello Stato che coordina le operazioni il quale decide a chi affidare i soccorsi e quale porto sicuro individuare per lo sbarco.
[34] Giudice delle indagini preliminari del Tribunale di Agrigento, ordinanza del 2 luglio 2019, p. 11.
[35] Associazione per gli Studi Giuridici sull’Immigrazione, Comunicato, 15 aprile 2020, www.asgi.it.
[36] Ministero delle Infrastrutture, Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale, Ministero dell’Interno e Ministero della Salute, Decreto interministeriale del 7 aprile 2020.
[37] Ivi, art. 1.
[38] Hirsi Jamaa e altri c. Italia [GC], cit. Cfr. sul tema S. Trevisanut, Is There a Right to be Rescued at Sea?, cit., p. 11 et seq. L’autrice, analizzando la giurisprudenza della Corte europea, che la Convenzione troverebbe applicazione anche nell’ipotesi in cui le persone soccorse non siano materialmente portate a bordo dell’imbarcazione dello Stato soccorritore a due condizioni: 1) “the SAR operation is performed on the basis of an international agreement, namely a SAR agreement” e 2) “there is contact between the rescuing unit and the vessel in distress, the ECHR applies”.
[39] È stato sostenuto che l’applicazione analogica dei principi sviluppati nel citato caso Medvedyev e altri c. Francia alle operazioni di ricerca e soccorso potrebbe portare a sostenere l’insorgenza della responsabilità dello Stato costiero in virtù del coordinamento esercitato, F. De Vittor, M. Starita, Distributing Responsibility Between Shipmasters and the Different States Involved in Sar Disasters, in The Italian Yearbook of International Law, 2019, p. 94 et seq.
[40] Tribunale di Trapani, sentenza del 3 giugno 2019.
[41] Ivi, p. 26 et seq. (corsivo aggiunto).
[42] Qui è utile solo brevemente descrivere – in attesa di future evoluzioni - la seconda delle controversie citate introdotta con comunicazione presentata dinanzi al Comitato per i diritti umani delle Nazioni Unite nel caso SDG c. Italia. Il caso riguarda operazioni di salvataggio svolte da un mercantile panamense – Nivin – nell’ambito della zona SAR libica, all’epoca dei fatti istituita, sotto un iniziale coordinamento delle autorità italiane, che ne hanno successivamente devoluto la responsabilità alla competente autorità libica. Quest’ultima ha ricondotto le persone salvate sul proprio territorio. Il signore SDG sostiene, dunque, che “(a)s a result of the return operation, first de jure and then de facto, coordinated by MRCC Rome, and executed in collaboration with, and through the intermediation of, the LYCG by the merchant vessel Nivin, [he] suffered severe harm, including serious violations to his security and to his life. He was denied his right to leave any country, he was arbitrarily detained, and exposed to torture and cruel, inhumane and degrading treatment that subsequently materialised, as well as to slavery and forced or compulsory labour”, Comitato per i diritti umani delle Nazioni Unite, Communication submitted for consideration under the Optional Protocol to the International Covenant on Civil and Political Rights del dicembre 2019, SDG c. Italia, p. 2.
[43] Corte europea dei diritti dell’uomo, ricorso n. 21660/18, S.S. e altri c. Italia, caso relativo ad un soccorso operato nel mediterraneo sotto il coordinamento dello Stato convenuto e che ha visto coinvolte anche motovedette della Guardia costiera libica. Il ruolo svolto dall’Italia e dall’Europa nel processo di rafforzamento delle capacità di ricerca e soccorso in mare della Libia che ha portato all’istituzione di una zona SAR da parte di quest’ultima ha destato diverse preoccupazioni e sollevato diversi quesiti giuridici che hanno spinto alcuni giuristi a presentare una formale denuncia al Procuratore presso la Corte penale internazionale contro l’Unione europea e i suoi Stati Membri per crimini contro l’umanità. Cfr. Communication to the Office of the Prosecutor of the International Criminal Court Pursuant to the Article 15 of the Rome Statute, pp. 111-112. Per un’analisi della Comunicazione, vedi, A. Pasquero, La Comunicazione alla Corte Penale Internazionale sulle responsabilità dei leader europei per crimini contro l’umanità commessi nel Mediterraneo e in Libia. Una lettura critica, in Diritto, Immigrazione e Cittadinanza, 2020, www.dirittoimmigrazionecittadinanza.it.
[44] Commissario per i diritti umani del Consiglio d’Europa, Third party intervention under Article 36, paragraph 3, of the European Convention on Human Rights, Application No. 21660/18, S.S. and others v. Italy, par. 33.
[45] Written submissions on behalf of The Aire Centre (Advice on Individual Rights in Europe), The Dutch Refugee Council (Dcr), The European Council on Refugees and Exiles (Ecre) and The International Commission of Jurists (Icj) dell’11 novembre 2019, p. 7. Invero, l’operazione interpretativa svolta sembra essere inversa rispetto a quanto argomentato dal Commissario per i diritti umani: i terzi intervenienti interpretano l’articolo 1 CEDU alla luce delle rilevanti norme di diritto del mare. Vedi anche, Written submissions on behalf of the interveners Amnesty International e Human Rights Watch, novembre 2019.
[46] Sul tema del divieto di ingresso, si veda, I. Papanicolopulu, G. Baj, Controllo delle frontiere statali e respingimenti, cit., e recente giurisprudenza italiana ivi citata.
[47] Cfr. D. Vitiello, Il diritto di cercare asilo ai tempi dell’Aquarius, cit.
[48] Qualora il coordinamento delle operazioni venga temporaneamente assunto da un diverso Stato in caso di inerzia di quello titolare della zona SAR si aprirebbe la questione della distribuzione di responsabilità tra i due. Sul tema, vedi F. De Vittor, M. Starita, Distributing Responsibility, cit.